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I «Falò»: quel rifiuto alla sublime Némirovsky

Cesare Cavalleri mercoledì 27 giugno 2012
Non trovò editore il romanzo di Irène Némirovsky, Les feux de l'automne, quando fu scritto nel 1942. La scrittrice, osannata da David Golder (1929) in poi, dai cui romanzi si traevano film di successo, ormai è in sospetto nella Repubblica di Vichy. Perfino Gringoire, il settimanale di destra cui Irène collaborava, si tirò indietro: anche se convertita al cattolicesimo dal 1939, la scrittrice era pur sempre un'ebrea. Il romanzo vide la luce in Francia solo nel 1957, e adesso giunge in Italia nella traduzione di Laura Frausin Guarino (Adelphi, pp. 248, euro 18).I falò dell'autunno non è dei romanzi migliori di Némirovsky. È crudele dirlo se si pone mente alle condizioni in cui fu scritto: Irène in miseria, ormai braccata, deportata ad Auschwitz nello stesso anno (1942) per morire pochi mesi dopo, non ancora quarantenne. In ogni caso, stilare una graduatoria tra le opere di Némirovsky è come sottilizzare sulle gerarchie angeliche: tutto, di Irène, rientra comunque nella categoria del sublime. Il protagonista dei Falò è Bernard Jacquelin, che si arruola ragazzo nel 1914 pieno di ideali patriottici, e ritorna a Grande Guerra finita trasformato in «lupo»: non crede più a nulla, il contatto con il sangue, il fango, la morte, gli fa desiderare solo piaceri, denaro, lusso di vita.È una metamorfosi diffusa tra gli ex combattenti. Basti pensare al nostro Ungaretti che il 23 dicembre 1915, dalle trincee di Cima Quattro scriveva: «Un'intera nottata / Buttato vicino / A un compagno / Massacrato / Con la bocca / Digrignata / Volta al plenilunio / Con la congestione / Delle sue mani / Penetrata / Nel mio silenzio / Ho scritto / Lettere piene d'amore // Non sono mai stato / Tanto / Attaccato alla vita». Il desiderio di recupero e di rivincita sulla vita, nel mite Ungaretti si sfogava in lettere d'amore, in Bernard giunse alla dissolutezza, ai legami con il pescecane politicante spregiudicato Raymond Détang (della cui moglie diverrà amante), nonostante la fedeltà della moglie Thérèse, sempre disposta a tutto comprendere, tutto perdonare.Fino alla catastrofe e alla catarsi finale: Bernard viene richiamato all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, è un affarista fallito, finisce in un Lager (amara previsione per Irène), sopravvive e ritorna da Thérèse anche con il rimorso di aver causato la morte del loro giovane figlio, perito in un incidente aereo per via di certi motori americani difettosi importati senza scrupoli da Bernard stesso.Questa dei motori difettosi, che può sembrare un peregrino espediente narrativo, è invece un fatto vero, come spiega Olivier Philipponnat nella nota al testo, richiamando il processo che nel 1942 fu intentato contro l'ex ministro dell'Aeronautica, Guy La Chambre.E dunque che cosa c'è che non va nei Fuochi dell'autunno? La tesi è importante e assai condivisibile, perché riguarda, come già in Due (1936) la costanza inscalfibile del legame matrimoniale, nonostante le sbandate e i tradimenti: ma il lieto fine è fin troppo lieto (quasi precipitato in rosa), e va anche detto che i falò del titolo sono i fuochi autunnali che i contadini accendono per purificare la terra e prepararla a nuove semine, metafora della guerra dal cui male può derivare nuovo slancio, e va bene; ma non sembra di dover applicare la metafora al matrimonio, quasi che l'adulterio sia un passaggio obbligato per l'amore. La trama, inoltre, è un po' costipata nei brevi capitoli, avrebbe avuto bisogno di maggior spazio anche per una migliore penetrazione psicologica di alcuni personaggi. Ma bastano le pagine finali sulla disfatta bellica della Francia e sulle ripercussioni nella vita borghese, per collocarci già nel tema di Suite francese, capolavoro assoluto, cui Irène in contemporanea si applicava.