Il quarto libro di poesie di Daniele Piccini,
Inizio fine (Crocetti, pp. 124, euro 12) è spiazzante fin dall'ossimorico titolo cortocircuitato, e l'assenza di paesaggio, o di qualunque rassicurante correlativo oggettivo, non aiuta. C'è – è vero – qualche traccia panoramica d'Umbria assisiate (Piccini è nato a Città di Castello nel 1972, e vive prevalentemente a Sansepolcro) ma sono reminiscenze pittoriche, più che osservazioni vedutistiche. Poesia colta (l'autore, docente universitario, è reduce da un'edizione commentata del
Ninfale fiesolano di Boccaccio), contiene trasparenti e assimilati echi pasoliniani («In verità solo l'amore esiste»), allude alla capra di Umberto Saba, e il montaliano «Così suona talvolta nel silenzio/ della campagna un colpo di fucile», diventa in Piccini «il silenzio interminabile e vano/ di una campagna prima dello sparo». Del resto lo stesso titolo del libro è di impronta eliotiana («
In my beginning is my end/ in my end is my beginning»). Questo solo per dire che un poeta, oggi, non può permettersi di essere ingenuo, deve aver letto (quasi) tutto. Colpisce il nitore della versificazione, nativamente endecasillabica. Particolarmente perfette le 29 poesie della sezione «Cellule» e le 5 della sezione «Colline pecorelle», tutte di 14 endecasillabi che, se fossero disposti in due quartine e in due terzine, sarebbero conclusi sonetti senza rima. Vincenzo Cardarelli? Mi piace fare questo nome per la classicità che un maestro ingiustamente dimenticato ha saputo trasmettere alle generazioni più giovani, perché la poesia è pur sempre rigore formale, arte della parola. La poesia di Piccini è poesia dell'assenza. All'origine c'è un trauma, un dolore che perdura, un lutto che resta misterioso, una carenza affettiva pudicamente celata. È una riflessione soliloquiale, che non ambisce alla comunicazione forse per timore di restarne ferita. Al punto che la poesia iniziale colloca la morte in stadio prenatale: «Quando eravamo morti ancora, i fiumi/ delle nubi correvano e le liquide atmosfere [...] Inevasi/ strati di nati a essere, avevamo/ le nostre mani-non-mani nel grembo:/ era una pace infida, sconfinata. [...] Eh sì, ritorneremo... chiunque chiami». Il dolore è l'alternativa al nulla: «Se il dolore non fosse questa spina,/ questa lunga dorsale della vita/ forse non saremmo altro che niente». E la rinuncia diventa sostanza: «Si comincia rinunciando a una forma [...] Si rinuncia a una donna, sempre quella [...] A tutto si rinuncia per poi credere/ a un altro tempo o storia che matura/ per una cruna d'ago del creato». La sezione più inquietante e forse più originale è intitolata «Dopo», e consiste in un dialogo frastagliato che non cerca conclusioni e contiene un accenno a Borges: «Ah, Buenos Aires dove il Cieco/ si aggira e non sbaglia le porte,/ sente l'odore del pane, i caratteri/ stampati freschi nel libro, le storie/ infinite posarsi/ nel grembo di una Donna...». A cui si risponde: «Anche te dovrò obliare/ e il suono di quei passi/ sul marciapiede, battiti/ della specie che aumenta,/ del ricatto di Vita...». Non ci sono liriche d'amore, e del resto la poesia di Piccini non è propriamente lirica. Ma c'è un'istantanea di fresco erotismo naturale che coglie il maschile/femminile: «L'anima di una donna è anche nel fianco,/ nello scatto con cui accenna e si ritrae:/ altri fida nel gesto della mano/ che lo rivela uomo [...] Andiamo dove vuoi: spazio del gioco/ è il fianco che contiene già il guizzare/ del nuovo nato, e niente è più sicuro».