Massimo Bottura è il primo cuoco del mondo. Così è stato annunciato ieri al Cipriani di New York, dove è stata svelata la classifica dei "World Fifty best restaurant's 2016". Dietro di lui altri tre italiani: Enrico Crippa del Duomo di Alba, Massimiliano Alajmo delle Calandre di Rubano, Davide Scabin del Combal Zero di Rivoli. Poi più nulla, dal 50° al 100° posto. Undici anni fa a Milano, a Palazzo Mezzanotte, alla prima edizione di Golosaria, Massimo Bottura, Carlo Cracco e Davide Scabin, interpellati dal sottoscritto sul tema: "C'è una via italiana della cucina?" dissero che mancava poco, ma ci sarebbero arrivati. «Ancora due anni – disse Scabin che oggi vive una rivincita dopo il declassamento della Michelin di novembre – poi la nuova cucina italiana farà breccia». Possiamo dargli torto? Questa classifica, discutibile come tutte, dà un segnale: la cucina italiana interessante è qualcosa di diverso da quella tradizionale in senso stretto: una reinterpretazione che tuttavia ha grande rispetto delle materie prime. Qualcosa di diverso dalla nouvelle cuisine degli Anni 80 di Gualtiero Marchesi, che ha comunque messo le basi per un'evoluzione verso la leggerezza dei piatti. Ma è qualcosa di diverso (anche se qualche dubbio permane) dalla cucina di Nadia Santini del Pescatore di Canneto sull'Oglio. Ne siamo certi? Con tutto il rispetto per i premiati che fanno parte dell'era degli innovatori post nouvelle cuisine, mi sembra di leggere una discriminazione generazionale, come se i Vissani o gli Jaccarino non debbano più essere presi in considerazione, in nome di un sensazionalismo da comunicazione. Ma anche loro si sono innovati; come tanti altri, hanno percorso la strada della leggerezza, della scoperta della materie prime, della creatività. E Cracco e Cannavacciuolo? Hanno già la tivù. E questa sovraesposizione sembra una penale rispetto al lavoro serio che fanno. Mentre usciva questa classifica ero a cena con Federico Ferrero, già vincitore di Masterchef, reo di aver riportato sui giornali non i soliti osanna di una critica gastronomica stanca e impastata, reduce dalla festa a Vico dove il boia mangia con l'impiccato e poi si dà appuntamento alla prossima abbuffata dove le pacche sulle spalle si sprecano. E se un neo critico dice che la cucina sarà buona, ma il servizio di sala vacilla oppure che l'insalata e la frutta non si sa cosa siano in un grande ristorante, riceve la commiserazione di chi continua ad alimentare il mito degli intoccabili, nuovi fenomeni del momento. Qualcosa non torna. La cucina italiana è vincente a patto che non si facciano sconti, chiudendo gli occhi sui buchi neri di un mestiere che ha sta mettendo in soffitta l'oste per far posto al cuoco-divo.