Paul Claudel confessò di ringraziare tutti i giorni Dio perché il poeta Arthur Rimbaud era esistito, dato che era per merito di quell'inatteso maestro che aveva imparato a rompere il guscio del visibile. Degli scritti di Rimbaud io conservo due immagini. Una si riferisce al periodo in cui il giovane poeta aveva preso in affitto una mansarda a Parigi, in una via scura e senza storia. Eppure era fortunato, perché, a dispetto di quella ubicazione, la sua piccola finestra dava sul giardino di una scuola con degli alberi enormi. In una lettera di quell'epoca Rimbaud descrive il momento in cui, subito prima che spunti l'alba, «tutti gli uccelli schiamazzano insieme». E racconta incantato, come si trattasse di una necessità irrinunciabile, il desiderio che allora provava di rimanere a guardare il mondo, semplicemente guardarlo, in quella circostanza in cui tutto sembrava rimanere catturato da un'ora ineffabile. L'altra immagine che mi viene in mente è quella di un'altra lettera, questa volta indirizzata a Georges Izambard e che costituisce un grido nomade: «Su, cappello, cappotto, i pugni nelle tasche, e andiamo». La persona umana non è soltanto quello che già è, ma è un poter essere, un essere in cammino, in corso d'opera, come se fino alla fine sempre fosse destinata a nascere. Per questo, accanto alle nostre scarpe tranquillamente riposte sul loro ripiano, dobbiamo tenere pronto un paio di "sandali di vento", perché saranno loro a farci capire che la vita non si svolge sulle carte geografiche, ma sulla strada e lungo il viaggio.