I ragazzi, il digitale e l'affanno degli adulti
C'è un altro dato, non meno importante. Lo dicono le statistiche: per i ragazzi Facebook praticamente non esiste. E Instagram sta iniziando ad annoiarli. Per loro esiste quasi solo TikTok che – come ha spiegato Data MediaHub – «solo in Italia è arrivato a quota 9,8 milioni di iscritti». In pratica sono «il 16,5% degli italiani di età superiore ai due anni». Nel mondo invece ha appena superato 1 miliardo di iscritti. Ma il dato che fa davvero effetto è un altro: il tempo medio speso mensilmente su TikTok si attesta ben al di sopra delle cinque ore. Ormai è la principale fonte di intrattenimento dei ragazzi. Persino chi non ha avuto dai genitori il permesso di avere un account sul social cinese ne conosce le star attraverso i filmati che vede su YouTube o che gli vengono mandati sulle chat dai compagni.
Eppure di TikTok se ne parla ancora poco nel dibattito mondiale. Le ragioni sono diverse. E una sta sicuramente nel fatto che è cinese e un'altra (temo) che politici, giornalisti e genitori lo conoscono solo in parte mentre usano Facebook (Twitter e Instagram) tutti i giorni. Invece dovreste conoscerlo. Iscrivetevi, entrate e immergetevi in un mondo dove tanti nostri riferimenti non contano praticamente più. Scoprirete (temo con una punta di dolore) che buona parte dei nostri idoli e di chi riteniamo famoso lì non lo è (più). O lo è in modo assolutamente marginale. E scoprirete anche che tutti gli eccessi dei quali giustamente accusiamo Instagram, su TikTok sono amplificati, come numero e portata.
Non si tratta di «benaltrismo», cioè di spostare il discorso da un tema (Facebook) a un altro (TikTok) ma di non fare lo stesso errore che abbiamo fatto col rapporto tra la tv e i minori. Per anni se ne è parlato, è stata monitorata ed è persino stato prodotto un «Codice di autoregolamentazione» sottoscritto da Rai, Mediaset e compagnia bella. Poi sono arrivati i social e YouTube. E poi ancora Netflix, Prime Video e le altre piattaforme video. Nel frattempo la tv è diventata digitale e ha creato «i canali per i bambini» (pieni zeppi di pubblicità) e i genitori hanno smesso di guardarla con sospetto. Come se la moltiplicazione esponenziale e su più piani dell'«offerta per i ragazzi» dopo averci prima confuso e poi sfiancato, ci avesse via via convinti a mollare. A ritenere che, in fondo, non è più un problema. Ma il problema non è «dove» i ragazzi vedono le cose ma «cosa» vedono. E soprattutto quali strumenti abbiamo per aiutarli davvero e quali alternative reali abbiamo loro da proporre. Vorrei sbagliarmi ma temo che, se andiamo avanti così, fra pochi anni anche qualunque social non ci farà più effetto e non provocherà più alcun dibattito proprio come accade oggi per il rapporto tra la tv e i minori. Provate, per esempio, a chiedere in giro cosa ne pensano gli adulti del fatto che nelle scuole medie tanti under 14 vanno pazzi per il violento e vietato «Squid Game». Molti non sanno cosa sia. Altri invece vi risponderanno: è su Netflix mica sulla Rai.