I giudizi dei post-veggenti e il destino degli allenatori
Jürgen Klopp che durante il commovente saluto ai tifosi del Liverpool, al termine dell’ultimo incontro dei Reds, dopo aver annunciato da mesi che si sarebbe congedato a fine stagione, ringrazia e riscrive le parole del coro a lui dedicato, sostituendo il suo nome con quello del collega olandese Arne Slot, e poi lo intona quel coro, seguito dai supporter del club inglese, annunciando di fatto chi arriverà al suo posto. Scegliete il modello che preferite, ho fatto l’allenatore per troppi anni e non farò l’errore più grande che si può commettere: quello di giudicare. E non fate, voi lettori, un altro errore, molto comune: quello di pensare che i ricchi contratti che alcuni allenatori firmano li rendano impermeabili alla pressione o allo stress. Il mondo (non solo quello dello sport) è zeppo di post-veggenti: coloro che appena è finita una partita ti sanno esattamente dire quale era la formazione giusta da schierare, quale il cambio necessario da fare, come doveva essere tirato quel rigore. La vera differenza è che, tutte quelle cose lì, un allenatore deve immaginarle e deciderle prima della partita, non dopo. Basterebbe aver chiaro questo semplice e banale concetto per vedere il ruolo dell’allenatore in tutta la sua complessità e godere di un calcio migliore, di giudizi più equilibrati, di commenti più rispettosi, di un livello di esasperazione un po’ inferiore. A noi (specialmente a noi italiani) piace molto drammatizzare e il calcio in effetti ben si presta bene al ruolo di grande commedia, con attori e parti in causa che recitano un ruolo definito, fra cliché e pregiudizi. Paiono sagge, allora, le parole proprio di uno dei tre allenatori che ho citato, il tedesco Jürgen Klopp: “Non è importante che cosa la gente pensa di te quando arrivi, è importante cosa pensa di te quando te ne vai”. Già, proprio così. © riproduzione riservata