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I giudizi dei post-veggenti e il destino degli allenatori

Mauro Berruto mercoledì 22 maggio 2024
Maggio è il mese di chiusura dei campionati di calcio e delle finali delle grandi competizioni europee. Corrisponde inevitabilmente al mese dei bilanci (non quelli finanziari di cui tanto si parla), ma dei bilanci agonistici, degli obiettivi raggiunti o meno, delle aspettative realizzate o disattese, delle gioie inaspettate oppure delle grandi delusioni. Maggio è il mese dell’apocalisse o dell’Olimpo, soprattutto per gli allenatori che, in un mondo dove chiunque – soprattutto nel calcio – pensa di avere tutte le soluzioni a portata di mano, sono chiamati a dover rispondere in prima persona delle prestazioni delle proprie squadre. Ognuno, in queste situazioni, reagisce in un modo diverso: c’è la versione esplosiva di adrenalina di Massimiliano Allegri, con giacca e cravatta che volano via, insieme a qualche parola di troppo nei confronti di giornalisti e dirigenti; c’è la calma olimpica di Claudio Ranieri che a 72 anni realizza un altro piccolo capolavoro di risultati e di signorilità, che fa finta di indispettirsi per il gavettone dei suoi giocatori che poi lo portano in trionfo sotto la curva, mentre lui sembra paradossalmente calmare gli animi (forse perché conosce bene sia la gioia della vittoria che il dolore della sconfitta e sa che, in quel momento, ha di fronte una squadra e una tifoseria che invece è appena retrocessa); c’è la versione coreografica di
Jürgen Klopp che durante il commovente saluto ai tifosi del Liverpool, al termine dell’ultimo incontro dei Reds, dopo aver annunciato da mesi che si sarebbe congedato a fine stagione, ringrazia e riscrive le parole del coro a lui dedicato, sostituendo il suo nome con quello del collega olandese Arne Slot, e poi lo intona quel coro, seguito dai supporter del club inglese, annunciando di fatto chi arriverà al suo posto. Scegliete il modello che preferite, ho fatto l’allenatore per troppi anni e non farò l’errore più grande che si può commettere: quello di giudicare. E non fate, voi lettori, un altro errore, molto comune: quello di pensare che i ricchi contratti che alcuni allenatori firmano li rendano impermeabili alla pressione o allo stress. Il mondo (non solo quello dello sport) è zeppo di post-veggenti: coloro che appena è finita una partita ti sanno esattamente dire quale era la formazione giusta da schierare, quale il cambio necessario da fare, come doveva essere tirato quel rigore. La vera differenza è che, tutte quelle cose lì, un allenatore deve immaginarle e deciderle prima della partita, non dopo. Basterebbe aver chiaro questo semplice e banale concetto per vedere il ruolo dell’allenatore in tutta la sua complessità e godere di un calcio migliore, di giudizi più equilibrati, di commenti più rispettosi, di un livello di esasperazione un po’ inferiore. A noi (specialmente a noi italiani) piace molto drammatizzare e il calcio in effetti ben si presta bene al ruolo di grande commedia, con attori e parti in causa che recitano un ruolo definito, fra cliché e pregiudizi. Paiono sagge, allora, le parole proprio di uno dei tre allenatori che ho citato, il tedesco Jürgen Klopp: “Non è importante che cosa la gente pensa di te quando arrivi, è importante cosa pensa di te quando te ne vai”. Già, proprio così. © riproduzione riservata