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I giochi "scientifici" affinché i laicisti possano fare tutto ciò che vogliono

Pier Giorgio Liverani domenica 22 giugno 2014
«È da qualche tempo che le nostre istituzioni vengono attaccate con forza dai cosiddetti “pro-life”». Comincia così un commento di Maurizio Mori, presidente della laicista "consulta di bioetica" sulla « pillola del giorno dopo tra scienza e pregiudizio» (l'Unità, domenica 8). La "scienza" sarebbe quella che da qualche anno ha spostato l'inizio della gravidanza dal momento del concepimento a quello dell'annidamento dello zigote nella mucosa dell'utero e quindi, se la pillola funziona, il concepito non ancora annidatosi viene espulso, ma non si tratterebbe di aborto perché la donna non sarebbe ancora gravida. Il "pregiudizio", invece, secondo il prof. Mori, consisterebbe nella realtà delle cose, perché, annidato o no, se l'embrione è espulso l'aborto c'è. Questo piccolo caso di logica elementare, che smentisce le tesi di comodo della sua consulta, sarebbe dimostrazione di uno «scarso senso dell'istituzione e un cedimento alla deriva populista» (oggi di moda), perché quella dei pro-life sarebbe «una visione non scientifica ma religiosa». Il ginecologo Carlo Flamigni, invece, che la pensa come Mori, è convinto che la morale coincida con la scienza (anche nel caso della bomba nucleare?) e che «la via della conoscenza» sia «il semplice uso del senso comune». Lui «non crede (l'Unità, lunedì 16) che qualcuno ritenga ancora che la religione sia dotata di metodo e che la superstizione, metodo a parte, sia intelligente». Per Mori «anche le morali religiose non possono restare immodificate col trascorrere dei secoli, ma debbono trovare il modo di adattarsi». Conclusione: «All'etica laica spetterà il compito, in avvenire, di prendere importanti decisioni che riguardano non più cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare». Se è questo che vuole (e già si fa), poteva dirlo subito senza tante premesse fasulle."CIVILTÀ" DELLA MORTEÈ abbastanza strano che un medico come il professore Umberto Veronesi scriva (La Repubblica, mercoledì 18) che «legalizzare l'eutanasia, va ripetuto, significa autorizzare i medici ad eseguire la volontà di un malato». E completa il suo pensiero affermando che «le leggi sul fine vita sono espressione di un grado evoluto di civilizzazione». La prima sentenza sembra violare il principio fondamentale della medicina di agire "in scienza e coscienza". Per la seconda basterà ricordare che quasi tutte le cosiddette "conquiste di civiltà" (aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, pillole dei giorni dopo) hanno sempre a che fare con la morte. Poi i soliti ritornelli: «Il nostro Paese è decisamente influenzato dal pensiero cattolico» (mai che si dica "dalle imposizioni laiciste"); e «A Welby furono negati i funerali religiosi, fu una forma di autentica crudeltà» (Welby aveva fatto del suo suicidio una battaglia politica e non aveva voluto un sacerdote al suo capezzale).TROPPE EUTANASIE?Fece rumore, qualche settimana fa, la "confessione" all'Unione Sarda di un anziano medico che raccontava di aver praticato, come cosa buona e normale negli ospedali, un centinaio di eutanasie. La notizia ha avuto un seguito; sono girati numeri inverosimili come quello sul Corriere della sera di giovedì 12: «In 20 ospedali di Milano l'80 per cento dei medici pratica l'eutanasia passiva» (interruzione delle cure) e il 4 quella "attiva"; e l'Istituto Mario Negri, di Milano, «stima 20mila casi l'anno di pratiche eutanasiche». Un dubbio è lecito: anche per l'aborto si usarono numeri esagerati, si parlò perfino di tre milioni di aborti l'anno, l'equivalente di almeno 11 aborti nel corso della vita di ciascuna donna (tutte, anche le sterili) in età fertile. E la gente ci credette.