I frutti di pace di Rada nel cuore dell’orrore
Si può essere pacifiste, antimilitariste e femministe coltivando more e lamponi, mirtilli e fragole? Sì, se i frutti vengono raccolti nella Valle della Drina da mani che, sulla carta, amiche non potrebbero essere. Ma sono mani di donne di Bosnia, come amano definirsi: non serbe, croate, bosgnacche, non ortodosse, cattoliche, musulmane o ebree. Donne e basta. Radmila “Rada” Zarkovic lo rivendica nel colloquio con Avvenire: «Sì, sono femminista e pacifista», anche decenni dopo la guerra, anche ora che il dolore è lenito. Laureata in giurisprudenza, 64 anni, trent’anni fa, quando le guerre devastava l’allora Jugoslavia (1991-2001), era una delle Donne in nero di Belgrado, che sfidavano il leader serbo Slobodan Milosevic e chiedevano lo stop alle armi.
Radmila Zarkovic - Ufficio stampa Nonino
«Finita la guerra avevo un progetto: fare qualcosa nell’area di Srebrenica, nel posto dove si è consumato il massacro più efferato (oltre 8mila uomini e giovani musulmani bosniaci trucidati nel luglio 1995 dalle truppe serbo-bosniache, ndr). Lì volevo creare condizioni per una convivenza e una pace vera ed era necessario che entrambe nascessero da un’attività radicata nel territorio, altrimenti non sarebbero durate a lungo». La “pace vera” di Rada è passata attraverso la terra. Tra il 2001 e il 2003 iniziò il lento processo di ritorno nell’area devastata dai combattimenti: tornavano le donne sfollate a Tuzla e Sarajevo, tornavano le vedove e le orfane del massacro di Srebrenica, tornavano gli anziani e i bambini piccoli.
«Così è nata la cooperativa agricola Insieme – Frutti per la pace, che si occupa di raccolta, trasformazione e commercializzazione di piccoli frutti – racconta Rada -. È stata la scelta giusta per le donne perché questa attività non richiede forza fisica né capitali. I frutti si raccolgono in estate, quindi è compatibile con la scuola dei figli. Volevamo creare le condizioni perché chi tornava, serbi o bosniaco-musulmani che fossero, potesse vivere insieme: è stato fin dall’inizio un progetto politico, sociale ed economico». Alla cooperativa c’è posto per tutte, religione e gruppo etnico non contano, e quei bimbi arrivati per mano alle mamme ora sono cresciuti e anche loro si impegnano nella cooperativa.
Oggi Insieme – Frutti per la pace, che ha sede nel villaggio bosniaco di Bratunac, sul fiume Drina, a pochi chilometri da Srebrenica e a pochi passi dal confine con la Serbia, conta una 50ina di famiglie socie, 350 che conferiscono i loro prodotti, e altre 100 che raccolgono a mano i frutti selvatici dal bosco: l’80% degli operatori sono donne. I prodotti – confezioni di frutti freschi, marmellate e succhi – vengono venduti anche in Italia, ad esempio da Coop Lombardia. Durante la cerimonia di consegna del Premio Nonino Risit d’Aur, il 27 gennaio a Ronchi di Percoto (Udine), Rada ha pronunciato parole pesanti: «A voi maschi tocca vincere la guerra, noi donne dobbiamo vincere la pace».
«È così – precisa ad Avvenire, in un ottimo italiano imparato per ragioni di lavoro – quando accadono tragedie come la guerra nell’ex Jugoslavia sono le donne a prendere la vita nelle loro mani e a preoccuparsi delle loro famiglie. Mi chiede se ho vinto la pace? Onestamente, non lo so. In Bosnia-Erzegovina la classe politica continua ad alimentare le divisioni e la paura del diverso, mette l’uno contro l’altro. Ma io ho ancora voglia di lottare per la pace. La pace è un tema globale, riguarda tutti e ciascuno può fare qualcosa».
A Bratunac le ferite sono lenite – «Anche se non potranno guarire mai del tutto», chiosa Rada – e le donne lavorando fianco a fianco hanno potuto sentire l’una il dolore dell’altra e quindi aprirsi, non restare chiusa ciascuna nella propria sofferenza. «Le donne sono state agenti di riconciliazione e questa è stata una vittoria della nostra cooperativa». Prima della guerra Rada, folti capelli scuri, sorriso aperto, energia inestinguibile, viveva a Mostar, poi in Croazia e a Belgrado. «Venire a vivere e a lavorare a Srebrenica e Bratunac è stata una scelta precisa. Ho voluto provare a portare la pace nel cuore dell’orrore».