Marathónas, 42 km da Atene: era l’agosto del 2004. Ci andai per capire cosa fosse la regina delle Olimpiadi, trovai un paese seduto sulla sua storia. Aria da Far West, non si muoveva foglia. Sole, vecchi col cappello fuori dai bar, sigaretta in bocca e bicchiere di caffè in mano. Immobili, più che la corsa aspettavano un motivo per alzare gli occhi. Ricordo che pensai che la maratona è un supplizio per fachiri del fiato. Dietro una curva c’era il tumulo di terra che ricorda i 192 morti ateniesi della battaglia contro i persiani, l’ultima concessione al passato. Quello di Filippide, il ragazzo soldato, 490 anni prima di Cristo. Era d’agosto pure quel giorno. Lui correva con l’odore del sangue addosso, i persiani sconfitti: lo aspettava la medaglia dell’onore. Messaggero di orgoglio, una spremuta di milza per diventarlo. Corri Filippide, vai. Undici sole lettere da gridare ad Atene: “Nenikèkamen”. Abbiamo vinto. Arrivò Filippide, raccontò la parola per cui aveva corso tanto. E cadde a terra, sfinito. Morto. Leggenda? Che importa? Guardavo quelle colline senza alberi. Le ultime che vide il povero Filippide. E poi più niente, buio infinito. Così è nato il mito della maratona, la corsa di chi sa soffrire. Per gli atleti è la traversata, il viaggio. Per tutti gli altri, la fuga. In fondo, si fugge sempre per arrivare da qualche parte.
© riproduzione riservata