Per Jamali non avevamo più alcuna speranza. Per anni, solo, a camminare su e giù per il cortile davanti all’ostello, senza parlare con nessuno, la barba incolta, lo sguardo perso nel vuoto. Una depressione apparentemente irreversibile. Un giorno, poche settimane fa, invece vedo un messaggio. Mi vuole incontrare. Al momento penso che si tratti di un altro Jamali, che non conosco. Invece è proprio lui, il ragazzo iraniano ormai di 35 anni, che gli australiani hanno confinato in Papua Nuova Guinea undici anni fa ed è ancora qui. Jamali ha condiviso la sorte di cinque o seimila migranti economici e rifugiati politici che il goveno australiano ha bloccato in mare e deportato in due campi sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, e di Nauru, nel Pacifico, nel 2013. Buona parte sono stati rimpatriati, un migliaio assegnati ad altri Paesi, alcune centinaia trasferiti in Australia per gravi motivi di salute ma ancora senza documenti, una quindicina morti suicidi o vittime di omicidio o incidenti. Quaranta circa sono ancora qui dopo oltre dieci anni.
Recentemente invece Raha è venuto a mancare. Era scappato ancora minorenne dallo Stato di Rakhine, in Myanmar, dilaniato dallo scontro tra musulmani e buddhisti. Dopo anni di prigionia in Papua Nuova Guinea era stato accettato dagli Stati Uniti. Ma non poteva partire. Totalmente depresso. Incapace di badare a sé stesso. Divorato dalla nostalgia per la famiglia lasciata alle spalle. Un giorno invece, un paio di anni fa, improvvisamente non c’è più. Dov’è Raha? È partito. L’hanno imbarcato per Denver, in Colorado. Forse pensavano che in America si sarebbe ripreso, qualcuno se ne sarebbe preso cura. Più semplicemente gli australiani se ne erano lavate le mani. Le poche immagini di Raha dagli Stati Uniti sono quelle di un barbone malconcio ai bordi della strada, che pronuncia frasi sconnesse; fino a un paio di settimane fa, prima di essere travolto da un’auto e privato della vita a soli 29 anni.
L’impatto dei campi di detenzione per richiedenti asilo sulla psiche e sul fisico di giovani in fuga, o semplicemente alla ricerca di un futuro diverso, è inimmaginabile e devastante. La relativa inesperienza della vita e del mondo a causa della giovane età si aggiunge a talmente tanti interrogativi senza risposta che stritolano il cervello sino ad alienarlo dalla sua funzione di regolamento e controllo della persona e del suo equilibrio: perché sono detenuto e punito senza una colpa, senza un processo, senza un limite di tempo stabilito? Cosa penseranno i miei familiari, che contavano sul mio aiuto o mi avevano aiutato a fuggire dal pericolo?
E poi c’è il calvario degli interrogatori per stabilire o meno lo status di rifugiato; la forzata convivenza in spazi ristretti con ragazzi di altre nazionalità, lingua, abitudini, ma segnati dalla stessa frustrazione e impazienza; il tempo che non passa mai; il caldo e le zanzare; i tentativi di protesta e la repressione. Impossibile non uscirne fortemente debilitati, e in vari casi matti, specie se già
provenienti da situazioni difficili in Somalia, Iraq, Iran, Sri Lanka, Afghanistan, Myanmar.
No. Campi di detenzione profughi così non devono esistere. Nessun Paese civile manda in carcere e in isolamento, per di più a tempo indeterminato, cittadini propri o altrui senza regolare processo. Nessuno ha diritto di perpetrare contro altri una tale devastazione fisica e psicologica. Nemmeno lo Stato. Tantomeno lo Stato!
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