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Hank Aaron, grande dentro e fuori campo

Mauro Berruto mercoledì 27 gennaio 2021
«Avevamo fatto colazione mentre aspettavamo che smettesse di piovere e ricordo come se fosse oggi: ero seduto con i miei Indianapolis Clowns in un ristorante dietro il Griffith Stadium e dopo aver finito di mangiare, sentii rompere tutti i piatti in cucina. Che suono orribile. Fin da bambino, l'ironia della cosa mi colpì: eravamo nella capitale nella terra della libertà e dell'uguaglianza e loro dovevano distruggere i piatti che avevano toccato le forchette che erano state in bocca a dei neri. Se in quei piatti avessero mangiato dei cani, li avrebbero lavati».
È un ricordo del 1952 di Hank Aaron, uno dei tanti episodi di razzismo, subito in questo caso a diciotto anni e alla sua prima esperienza di giocatore di baseball in quella che ai tempi si chiamava Negro Legue, lega riservata, come facilmente immaginabile dal suo esplicito nome, ai giocatori di colore.
La straordinaria vita di Hank Aaron è terminata venerdì 22 gennaio dopo aver scalato l'olimpo del baseball, aver strappato il leggendario record di fuoricampo a Babe Ruth a prezzo di valanghe di insulti e minacce di morte: non era apprezzato il fatto che quel record cadesse proprio grazie a un atleta nero. Aaron arrivò a un solo fuoricampo dal leggendario Ruth al termine della stagione 1973 e lui stesso dichiarò che la sua paura più grande fu quella di essere ucciso nell'inverno che lo separava dalla stagione successiva nella quale, inevitabilmente, il record sarebbe diventato suo. Invece ad Aaron fu risparmiata la vita, l'8 aprile del 1974 arrivò il fuoricampo n. 715 e, nel corso della partita stessa (ovviamente interrotta per permettergli di prendere la cornetta), la telefonata di congratulazioni del presidente Nixon.
Aaron era credente e si dice leggesse frequentemente l'Imitazione di Cristo, il saggio di Tommaso da Kempis, il cui vero cognome era Hammerlein (piccolo martello), curiosa coincidenza con il soprannome universalmente noto di Aaron (The Hammer, il Martello).
Aaron martellò palle da baseball spedendole fuori campo così come pregiudizi e razzismo, assegnadosi meravigliosamente quel ruolo di influencer che i grandi sportivi americani sentono come proprio, a differenza di quanto capita molto spesso nel nostro Vecchio Continente. Quell'uomo di colore capace di infrangere un record mitologico dello sport a stelle strisce proprio in Georgia, ad Atlanta, dove quel pubblico del profondo sud gli regalò un'epica standing ovation non smise mai, per tutta la sua vita, di battersi per il rispetto dei diritti delle minoranze. Lui, nato poverissimo in Alabama, si vide conferire, nel 2002, la Medaglia Presidenziale della Libertà, la più alta decorazione degli Stati Uniti.
Barak Obama lo ha voluto salutare descrivendolo come: «Uno dei più forti esseri umani che abbia conosciuto, un uomo senza pretese e dall'esempio imponente». E perfino Muhammad Alì, molti anni fa, aveva dichiarato che Aaron era stato «l'unico uomo che io abbia idolatrato più di me stesso».
L'ultimo suo messaggio è stato un tweet postato il 6 gennaio dal suo account personale: una foto con la mascherina chirurgica ben indossata e poche parole: «Sono orgoglioso di aver ricevuto, questa mattina presto, il vaccino Covid-19. Spero facciate lo stesso anche voi!».