La prima volta che ho sentito parlare di te è stato a bassa voce: “Sembra... forse...” Quelle mezze frasi che fra donne si sussurrano, avvertendo però un tonfo al cuore. Poi, nella prima immagine azzurrina sembravi un frammento, un piccolo ippocampo marino ricurvo su se stesso. Ma già c’era quel battito, netto, regolare.
In casa abbiamo atteso, senza fare troppe domande alla mamma. Non si deve essere ansiosi, il frutto va lasciato maturare. Altra foto azzurrina, una mattina, sullo schermo dello smartphone. Già si distinguono mani, gambe, faccia, naso. Il cursore dell’ecografista scruta, misura, calcola, tutto pare regolare. Io che, in tram, sto a guardare, penso a come in quei neanche dieci centimetri di creatura vadano formandosi le ossa, i polmoni, e il cervello, e quasi mi si ferma il respiro.
Nelle ultime eco è già, evidentemente, un bambino. Un maschio. Beato si dondola nella sua culla calda. E infine ci sta stretto, ed è ormai l’ora. Ma non ha affatto fretta. Dodici giorni post termine: tutta la famiglia mobilitata. La nonna, che dovrà a qualsiasi ora accogliere il fratellino maggiore, si appende il telefono al collo – non sia mai, che non senta la fatidica chiamata. Il momento scocca a notte fonda. Corriamo a casa del figlio. D’improvviso c’è fretta. Tarda l’alba di febbraio ad alzarsi, e dall’ospedale nessuna notizia. La nonna infine si alza e si mangia, una per una, tutte le unghie, come quando era una bambina e si partiva per le vacanze, e un treno sul binario ci aspettava.
Il traffico del lunedì mattina colma Milano, attorno. Porto il fratellino all’asilo e torno a letto, un cuscino sulla testa, come da piccola. Quanto durerà l’attesa? Squilla, finalmente, tenue, un messaggio. «10 e 30, Giulio è nato, tutto bene». E finalmente il cuore rallenta, e il respiro si fa normale. In ospedale non ci fanno entrare. Ma eccolo nelle prime foto, un berrettino di lana in testa, lui tondo, roseo. Sbadiglia come uno che dica: Dio, che nottata. La mamma accanto sfinita, lui, un’ora dopo, con un certo corrucciato cipiglio e gli occhi aperti, pare chiedersi dove diavolo è atterrato. Muove le labbra come a cercare il seno, già sa che deve fare.
E quando finalmente ti prendo in braccio, piccolo, constato come sei caldo e vivo e perfetto, le mani da bambola cesellate. Di nuovo, venticinque anni dopo, un inarginabile stupore: da dove vieni tu, che nove mesi fa non c’eri? Guardarti è un contemplare, un fronteggiare il sacro: tu che ora sei, tu, venuto da invisibili frammenti. E porti in te il biondo rosso di un bisnonno, e il naso di tuo padre e gli occhi della mamma – e tutto mirabilmente mescolato in una trama segreta.
Ogni neonato, se lo stai a guardare, è thauma, è sacro stupore. È una evidenza, che qualcuno lo ha creato. Se i generali e i duci e gli ammiragli che comandano eserciti e flotte potenti e minacciose osservassero attentamente per un’ora un neonato, forse li sfiorerebbe un dubbio? Che tutti quelli che mandano a morire, e loro stessi, carichi di stellette, sono figli: e non può essere che vengano dal niente. Figli di un Padre: pensati, attesi, eredi di occhi e voci e forza di avi. Quanti anelli di catena spezza un solo colpo di cannone? Li vedi nelle trincee ucraine i morti, riversi, congelati. Forse nemmeno li seppelliranno. Vent’anni fa, pensate, erano come questo bambino che s’addormenta sul seno di sua madre.
In quanti, ragazzi, nella storia, in quanti siete stati traditi e usati e annientati. Ma di nuovo, ecco un figlio cerca il seno. Inesorabile tensione. Perché, lo disse Hannah Arendt, «Gli uomini, anche se devono morire, sono fatti per incominciare».
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