Non volevo né potevo parlare con mio padre. Mia madre e io cercavamo di volta in volta una temporanea riconciliazione, ma c'erano troppi scheletri negli armadi, troppe incomprensioni perverse. Ci sforzavamo, perché avremmo voluto volentieri concludere la pace, ma fallivamo sempre" Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi fisica e psichica.
Ricordo ancora oggi l'emozione che mi lasciò nell'anima la visione del film di Ingmar Bergman Il posto delle fragole (1957), emozione che si rinnova ora mentre leggo la sceneggiatura, stesa dal grande regista svedese e tradotta quest'anno dall'ed. Iperborea. Quell'indimenticabile mano che fuoriesce da una bara semiscoperchiata, caduta a terra, non solo conduce di fronte al mistero della morte ma soprattutto davanti al senso della vita, al bilancio fallimentare che il protagonista deve registrare attraverso l'intenso pellegrinaggio nel suo passato.
Ho citato sopra alcune frasi autobiografiche che il regista ha scritto nel libro Immagini, destinandole a illuminare la sua situazione interiore quando girava quel film. Bergman era figlio del cappellano di corte, vissuto in un aspro dissidio con la moglie, e il piccolo Ingmar aveva subito scoperto di essere stato «generato in una crisi fisica e psichica». Terribile è quell'espressione "grembo freddo", simbolo di una famiglia arida. È, purtroppo, un'esperienza che si ripete incessantemente: le incomprensioni si accumulano, mai uno sforzo personale cerca di interromperne la catena e a esserne vittime sono soprattutto i figli. Pensieri complessi su cui è possibile intessere infinite considerazioni, ma su cui si deve assolutamente riflettere.