Povera Inter. Prima legioni di Cassandre avvertono dell'impossibilità di rovesciare il risultato di Champions con lo Schalke04 ("mai successo nella storia", come se la storia del calcio non fosse una mirabile sequenza di eventi inediti...) eppoi, presa nota della (banale, normale, inevitabile) sconfitta di Gelsenkirchen, la riempiono di botte: inguardabile, cotta, bollita, finita, umiliata, beffata, ridicolizzata, da buttare, da rifondare, e via così maramaldeggiando. Non mi dedico agli autori del linciaggio, per carità, dico in generale dei media: gli stessi - credetemi - che ogni tanto processano il calcio italiano e i suoi seguaci più fedeli (quorum ego) privi - si dice - di quella spinta eticosportiva che dovrebbe insegnare a sopportare, anzi ad amare, anche la sconfitta. Quanti dibattiti, quante sferzate corsive, quante tonde legnate, quante prediche da pulpiti improvvisati per far intendere al popolo bue il verbo sanremese dei moralisti Rokes "bisogna saper perdere"; e quante balle su de Coubertin e la sua citazione pietrificata "l'importante non è vincere ma partecipare": confessò - il nobile snob - d'averla colta nel saluto del vescovo della Pennsylvania Ethelbert Talbot ai partecipanti ai Giochi del 1908, ma adattò la formula molto cristiana alle esigenze aristocratiche (poi borghesi) del movimento sportivo. Il mio profeta più recente, eppur da decenni (e fin da vivo) nella storia dello sport, l'amico Enzo Ferrari, con sublime cinismo amava dirmi che «nelle corse il secondo è solo il primo degli ultimi»; e stigmatizzava la dabbenaggine di coloro che si autonominavano "vicecampioni del mondo" e l'ipocrisia di quegli scribi che segnalavano l'olimpismo fra le virtù cristiane mentre il motto dei Giochi è da sempre quel "Citius-Altius-Fortius /Più veloce! Più alto! Più forte!" che sempre de Coubertin - frequentatore assiduo di ecclesiastici - estrasse da una predica del frate domenicano Henri Didon alla fine dell'Ottocento. Scendendo dalle nuvole della più trita retorica, forte di ben altri maestri e insegnamenti, avrei amato dedicare agli interisti sconfitti - e in particolare al loro pascoliano trainer Leonardo - un delicato epicedio, peraltro difficile da concepire nel Paese dei cantori di epinici, strimpellatori e turibolanti ad uso dei vincitori sui cui carri saltano veloci e famelici come cavallette. Avrei voluto dire alla Pazza Inter ancora un sentito grazie per la grandiosa vittoria del Bernabeu sul teutonico Bayern; e non solo: esternarle eterna gratitudine per avere - prima di quella emozionante finale - piegato l'albagia dei calcettisti del Barcellona con una partita tatticamente magistrale che i catalani han fatto duramente pagare più tardi al Mourinho madridista imponendogli una schiaffeggiante "manita". Ha vinto tutto, l'Inter, l'ultimo trofeo addirittura con il perdente Benitez, e non si può cancellarne le vittoriose tracce a causa dell'allegra escursione dei tedeschi a San Siro che ha lasciato a Leonardo solo la tentazione di uno scudetto e di una Coppa Italia consolatoria. Dirò di più, e a fatica, per antica rivalità: la breriana Beneamata è tornata ad essere amata. E adesso, avanti gli altri.