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Grandi cattedrali e piccoli giochi di potere

Gianfranco Marcelli martedì 18 giugno 2019
Attorno ai grandi simboli della cristianità europea si consumano piccoli giochi di potere, in parte venati da persistente ostilità laicista alla presenza “fisica” della Chiesa. Lo si è visto a Barcellona, dove il comune ha imposto alla Fondazione per la Sagrada Familia pesanti oneri finanziari in cambio della licenza “postuma” di costruzione. Rischia di accadere, in forma diversa, anche a Parigi, per la scelta dell'Eliseo di ricostruire Notre-Dame a tappe forzate, derogando alle leggi urbanistiche tra le proteste del mondo della cultura transalpina.
Nella capitale catalana, la paradossale sanatoria concessa dalla giunta della sindaca Ada Colau, sconfitta il 26 maggio alle elezioni municipali ma impegnatissima a restare in sella cambiando alleanze, è stata presentata all'opinione pubblica come una vittoria delle regole contro l'“indisciplina” di Antoni Gaudì e dei suoi successori. Con sovrano sprezzo del ridicolo, si è bollata come “abusiva” la straordinaria opera avviata dal visionario architetto cattolico 137 anni fa. Un'opera portata avanti per decenni, a ritmi talora lenti, ma ormai molto vicina al completamento (2026). E alla quale già dal 2005 l'Unesco ha concesso l'inserimento tra i Patrimoni mondiali dell'Umanità.
Il mondo intero, a cominciare dalle decine e decine di milioni di fedeli e di turisti che negli anni hanno visitato il “Temple expiatori” consacrato da Benedetto XVI alla fine del 2010, avrà come minimo sorriso lo scorso ottobre, venendo a sapere che, al prezzo di 36 milioni di euro (in parte rateizzabili), era stato firmato l'accordo tra il Comune e il Patronato della basilica. Nell'occasione, fu spiegato che Gaudì chiese regolarmente nel 1882 l'autorizzazione a edificare. E chissà, forse negli anni successivi fu pure concessa, ma il rogo appiccato durante la guerra civile, frutto di odio anticlericale, distrusse tutti i documenti originali e rese impossibile provarlo. Nell'incertezza, si paghi e basta.
Da ultimo, il 7 giugno, l'assessore all'urbanistica ha consegnato la licenza, twittando orgogliosa per la fine di un “privilegio”. In effetti il privilegio c'è stato e resterà: è quello concesso gratuitamente a Barcellona dalla presenza di un'opera religiosa unica nello spazio e nel tempo, fonte tra l'altro di entrate molto più cospicue di quelle appena estorte. E divenuta ormai simbolo universale della città.
A Parigi invece, in queste ore, si sta consumando su Notre-Dame un braccio di ferro istituzionale tra i due rami del Parlamento. La “camera bassa” (Assemblea nazionale) ha dato il via libera alla legge urgente voluta da Macron, che consente di bypassare le norme vigenti in materia urbanistica, ambientale e altro, pur di completare la ricostruzione della cattedrale nei cinque anni promessi già a caldo la sera del devastante incendio. Il Senato l'ha modificata, privandola del diritto di deroga, contro il quale già al momento in cui era stata annunciata si erano espressi in una lettera aperta 1700 tra architetti, restauratori, docenti universitari e professionisti diversi. La maggioranza filo-presidenziale insiste però per i pieni poteri e, in base alla costituzione della République, finirà per spuntarla.
Ma qual è il conflitto reale che si cela dietro il contrasto formale? Macron e i suoi consiglieri sanno che in cinque anni è impensabile rifare l'edificio così com'era (per la sola messa in sicurezza dell'area serviranno ancora almeno tre mesi), ma sanno pure che nel 2024 in Francia si terranno le Olimpiadi. Vogliono dunque assolutamente mostrare al mondo risultati concreti, a costo se necessario di qualche forzatura dalle ricadute estetiche discutibili. È la nuova grandeur secondo “Manu le petit”, sussurrano a Parigi.