Walter Benjamin amava molto la leggenda degli angeli che compaiono per scomparire. Così la riportava in uno scritto del 1933, trasparente anticipazione delle Tesi di filosofia della storia: «La Kabbalah racconta che Dio crea a ogni istante un numero sterminato di nuovi angeli, ciascuno dei quali è destinato soltanto a cantare per un attimo le sue lodi davanti al suo trono, prima di dissolversi nel nulla». A richiamare l'attenzione sul brano è stato Gershom Scholem, il grande studioso della mistica ebraica che di Benjamin fu amico e confidente, tanto da custodire per lui l'Angelus Novus di Paul Klee. Il dipinto, com'è noto, riveste un ruolo centrale nelle già ricordate Tesi di filosofia della storia, ma non se ne coglie completamente il significato se non ci si richiama all'incessante processione degli angeli che per un momento oppongono la loro voce alla famelica prepotenza del nulla. Non è una strage quella che si consuma davanti all'Altissimo. Nella sua misericordia imperscrutabile, Dio condensa in un istante il significato di un'intera esistenza, affidando alle comparse angeliche il compito di mantenere l'armonia dell'universo. Come ogni musica, però, anche quella celeste è intessuta di silenzio: «Nelle cose che non ho più - scriveva ancora Benjamin - alberga l'angelo».