Giulia, Filippo e il villaggio che dobbiamo tutti essere
Caro Tarquinio,
ma perché la morte di Giulia ha colpito tutti così tanto, forse più di molte, troppe morti violente di altre giovani – o meno giovani – donne? Giulia, nei giorni della sua scomparsa, era diventata pian piano la ragazza – viva – della porta accanto. Abbiamo amato il suo viso, il suo sorriso, il suo corpo minuto, gli sprazzi di allegria che ci arrivano da alcune fotografie (chissà con quanta fatica l'aveva ritrovata dopo la morte della mamma)... Abbiamo ammirato il suo impegno e, mentre nel cuore il timore prendeva sempre più spazio, abbiamo atteso il miracolo della laurea, come un lieto fine, una gioia che prendeva il posto dell'angoscia. Giulia era una giovane donna viva che abbiamo amato, che ci è stata tolta e di cui ora sentiamo il vuoto, piangiamo l'assenza, rimpiangiamo la vita che avrebbe potuto essere e non sarà. E via via avanzava la percezione del dramma, aumentava quella del dualismo vittima- persecutore e, ben separati, il dolore per Giulia, il rancore verso Filippo. Eppure, per Dio sono entrambi figli prediletti. Giulia è nelle Sue braccia, Filippo ha bisogno del Suo perdono e del Suo abbraccio. Non è finito tutto, Dio è sempre all'opera: nei cuori dei fratelli di Giulia e di suo papà, di Filippo e dei suoi genitori. E nei nostri cuori, perché la pietà diventi silenzio, preghiera, scelte quotidiane di cura di noi stessi, del nostro ambiente di vita – in ogni direzione. Abbiamo bisogno di Dio nel cuore, di sostare nel suo Amore e guardare da lì ogni vicenda umana. E ritrovare la Sua speranza. Per tutti, nessuno escluso. Ad-Dio Giulia, sii un'anima bella che veglia sul Bene e ci aiuta a custodirlo, sempre. Con speranza.
Caro Marco Tarquinio,
Giulio Cesare Favilli Santucci
Caro Tarquinio,
La vendetta è opera di Filippo, il ragazzo ossessionato dalla gelosia. Il perdono, un percorso duro e difficile lo dovranno attuare i familiari di Giulia e di Filippo. Sono stanco di leggere drammi di questo tipo. La mia professione – insegno Storia dell’Arte nei Licei Classico e Scientifico e all’Università per stranieri di Siena – inevitabilmente mi convoca alle mie responsabilità, nella scuola si parla troppo poco di femminicidio e di relazioni amorose, le nostre studentesse e i nostri studenti hanno vissuto l’adolescenza individualmente, le uniche relazioni con altri stanno avvenendo soprattutto tramite dispositivi che tutti noi conosciamo, modalità che ai nostri ragazzi hanno condizionato la perdita del loro corpo come sede delle emozioni. Mi interrogo sulla scuola così come io la vivo, dirigendomi più sulla formazione di persone che non sull’informazione. È questo, ancora oggi, che manca alla scuola!
Fabio Sonzogni
Finiamo sempre per mettere presto le morti da parte, tutte le morti, quelle drammatiche, premature e violente e anche quelle normali e naturali delle persone care. Sebbene queste ultime continuino a restarci dentro e accanto, sorprendente assenza-presenza. Ma è così: lasciamo che le morti scivolino via dai pensieri, dimenticate, anche così dimenticandoci della morte, forse sperando che essa si dimentichi di noi. Ci teniamo stretto solo il “caso” che certe morti-lacerazioni più sconvolgenti rappresentano. Quante volte anch’io, giornalista, assieme a voi, cara amica e cari amici, esperti di umanità quali mostrate di essere con le vostre belle lettere, e a tanti altri ci siamo ritrovati dentro questi piccoli grandi vortici. E quante volte ci abbiamo ragionato su, cercando nella grande saggezza del passato, nella sapienza di uomini e donne profondi, nella fede che tutto sa illuminare la via per resistere e imparare a vivere meglio, senza essere trascinati dal dolore e dalla rabbia, dalla paura e dalla morbosità.
La vicenda della vita limpida e della morte violenta e insopportabile di Giulia Cecchettin ha colpito con una forza che stenta ad affievolirsi davvero tantissimi di noi, forse perché – come intuisce, vede e scrive benissimo la lettrice Lorenza Polvara – in essa si uniscono la dimensione del coinvolgimento affettuoso con una persona che ci era diventata cara e quella del caso di cronaca che s’impone per drammaticità: non solo l’ennesimo, terribile, femminicidio, ma l’assassinio di una giovane donna amata. Un’infinità di italiani e italiane si sono sentiti e si sentono “familiari” di Giulia – immedesimati nel padre, nella sorella e nel fratello di lei – e lei ci resta dentro e accanto. Anche con la potenza degli interrogativi su ciò che è la “vendetta” che l’assassino ha cercato, tentando di cancellare il nome e il corpo di Giulia e di distruggere (senza riuscirci del tutto) la sua esistenza. Anche con la scandalosa libertà delle domande su ciò che può e potrà di più essere il “perdono” che non è rapida sentenza di assoluzione, ma – se Dio vuole e le persone coinvolte lo scelgono – ripida riconciliazione anche con chi e con ciò che oggi ci appare inconciliabile. E soprattutto con la questione aperta e irrisolta della violenza di genere, ancora e sempre esercitata in forme più dirette e atroci contro le donne, nella “società evoluta” che abbiamo costruito. I dati ci dicono di una tendenza che dovrebbe far suonare a distesa l’allarme: le tante parole spese dopo ogni femminicidio e il più volte accresciuto rigore delle sanzioni non influiscono sul tristissimo fenomeno, che mantiene anno dopo anno più o meno le stesse proporzioni. Come una febbre maligna che non se ne va. Serve una scossa di coscienza ed educativa. Benedetta sia, perciò, la mobilitazione comune, anche col “minuto di rumore” per Giulia, di ragazze e ragazzi di ogni dove e benedetto sia questo gran dibattere e persino accapigliarsi: se l’intento è serio, che sia pure veemente! E sono d’accordo con due uomini di cultura e di scuola sensibili come Favilli Santucci e Sonzogni, che indicano il percorso formativo della persona, uomo o donna, come concreta e comunitaria via maestra oltre ogni sottovalutazione e sopraffazione. Aggiungo solo che è importantissima l’azione di ognuno e di ognuna – in famiglia, nella scuola, nella vita associativa ed ecclesiale – ma è essenziale che essa sia corale. In questi giorni mi è tornato in mente, e mi è apparso più chiaro, l’adagio africano che suona “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Per far crescere, per custodire, e per insegnare a bimbi e bimbe a essere “persona”: diversa, ma della stessa altezza di chiunque. Già, non basta far bene coi propri figli e figlie se lo si fa da soli. Il male esiste, ha semi coriacei e la sfida è dura. Il bene è reale, ed è sempre comune: si fa tutti assieme. Non è facile né scontato, ma è possibile e necessario. E se più di qualcuno la smettesse di dire che questa solare fatica è solo retorica, auto-esentando se stesso dal dovere di tutti e tutte, finalmente ci riusciamo di più, ci riusciamo davvero.