«Abitano in case con pochi libri, non seguono ciò che avviene nel mondo né hanno cognizione delle istituzioni pubbliche, non hanno mai frequentato una biblioteca, non hanno percezione della profondità temporale, conoscono in modo insufficiente l'italiano e poco le lingue straniere. E quando si iscrivono all'Università non dispongono delle competenze necessarie: sono i ragazzi italiani…». Li descrive così Marco De Nicolò, docente di Storia contemporanea all'Università di Cassino, nel suo saggio “Formazione. Una questione nazionale”. Per quanto possa valere la mia esperienza di padre, mi pare un'analisi impietosa: aveva ragione Albert Einstein quando diceva che è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. I giovani sono persone, non un genere: ognuno diverso dall'altro. E quelli di oggi non mi sembrano peggiori di quelli della mia generazione: sono scomodi, spesso irruenti, a volte irrispettosi. Vogliono tutto e subito. Ma manifestano le loro fragilità restando aperti, disponibili e generosi. Non sono più prigionieri delle ideologie, aspirano a rapporti autentici, cercano la verità. Più e meglio di chi li ha preceduti. Quello che è cambiato è che tutti oggi parlano dei giovani, ma pochissimi parlano ai giovani. Se non per giudicarli. Circostanza che a loro sta terribilmente sulle scatole. E in questo, almeno, non hanno affatto torto.