Di Gianni Celati, oltre al Meridiano Mondadori dedicato alla sua narrativa, è uscita quest'anno anche una raccolta di suoi scritti critici, perlopiù lezioni e conferenze scritte quasi tutte negli ultimi vent'anni: Studi d'affezione per amici e altri (Quodlibet, pagine 273, euro 16,50). Ci sono tutti i temi cari a Celati: la novella come genere breve e orale, nelle cui raccolte classiche circolano e si ritrovano trame, aneddoti, personaggi, beffe e burle, avventure e meraviglie di un mondo premoderno sparito; poi il grande poema di Ariosto, pensato come illusionistica «arte tessile», con i suoi fili interrotti e intrecciati; la narrativa fiabesca, picaresca e comica; e infine alcuni amatissimi autori italiani del Novecento: Federigo Tozzi, Silvio D'Arzo, Antonio Delfini. Quest'ultimo, l'imprendibile, inclassificabile Delfini, è forse l'autore che esemplifica meglio la passione di Celati per quel confine, quel margine in prossimità del quale, oltre il quale, la letteratura non è più o non è ancora un'istituzione, ma una vocazione a perdere, a dissipare se stessa in un non-senso paradossalmente essenziale perché destabilizza le nostre certezze a proposito non solo della letteratura ma del linguaggio, della parola. Così Delfini, scrittore “irrisolto” o perfino fallito, autore di pochi racconti costituzionalmente incompiuti e di pagine diaristiche, scrittore più indeciso e ozioso che produttivo, più dissipatore che costruttore, viene letto e proposto da Celati come fosse un “memento” per tutti coloro che fanno dello scrivere letteratura una solida e stabile fede mondana. Per Celati la lingua di Delfini non è quella del “si scrive così”, ma quella «del nostro orecchio interno», e perciò si può dire che «nessun autore italiano sia stato più lontano di Delfini dall'idea di essere padrone della lingua». Oltre a quelle del nomadismo, dell'oralità e della visione dal basso, l'idea di Celati è che alla scrittura letteraria vada tolto peso in tutti i sensi: forme brevi e dai confini incerti, non consacrate e non consacrabili. Riassuntivo e conclusivo è il Discorso sull'aldilà della prosa. Contro la "«monomania romanzesca» e il tipo di prosa che richiede, Celati sceglie quella di Leopardi, fra Zibaldone e Operette morali: prosa «erratica» e «senza mete prefissate». Prosa saggistica, direi. Il che è paradossale, se teorizzato da un narratore.