Sotto il titolo Controma-no, Sossio Giametta ha riunito dieci saggi che revisionano altrettanti luoghi comuni del politicamente corretto (Book Time, pagine 104, euro 12). Il politicamente corretto è l'uso (e l'abuso) diffuso della litote, figura retorica che consiste nella formulazione di un giudizio o di un'idea attraverso l'attenuazione o la negazione del suo contrario: “diversamente abile” al posto di “handicappato”, “afroamericano” al posto di “negro” o “nero”, “non udente” anziché “sordo”. Può essere utile per sostituire termini che hanno assunto un'intonazione spregiativa, peraltro dipende da come vengono usati e pronunciati: chi disprezza i “negri”, continuerà a disprezzare gli “afroamericani” e qualificare “non udente” il sordo, non gli restituirà l'udito. Molto spesso il politicamente corretto, infatti, si risolve in mera cosmesi linguistica, senza facilitare la comprensione della realtà sostanziale. Giametta, traduttore di tutto Nietzsche e poliglotta, «nell'aquila dei suoi novant'anni» – per usare l'espressione di Quasimodo nella lirica dedicata al padre – prende in considerazione, per esempio, l'antirazzismo che certamente è «una delle grandi conquiste della modernità», ma può anche essere usato in modo fanatico. Tutti gli uomini sono eguali davanti a Dio e davanti alla legge, e tutti meritevoli di rispetto, ma non si devono negare le differenze non solo e non tanto per il colore della pelle, ma per il retaggio culturale che ciascuno di noi si porta dietro. Per gli immigrati, adattarsi alla lingua, agli usi e costumi dei popoli ospitanti e obbedire alle loro leggi, significa rinunciare ai propri, ossia alla propria identità e alla fine a sé stessi. Valga l'esperienza della Germania dove, come ha riconosciuto e dichiarato la cancelliera Merkel, l'operazione di integrazione, nonostante l'impegno profuso, è fallita: i due milioni e mezzo di turchi che sono nel Paese, nel recente contrasto Merkel-Erdogan, sono stati tutti per Erdogan. L'analisi più ampia nel libro di Giametta è riservata al tema della pena capitale, alla quale l'autore si dichiara contrario, senza però rinunciare a rifletterci su. Giametta cita Platone, secondo il quale la pena di morte è ammessa quando il reo è irrecuperabile (come accertare l'irrecuperabilità Platone non spiega); Kant sosteneva che «se il ladro ha ucciso, deve morire», e tacciava di «affettato sentimentalismo il marchese Beccaria». Anche Hegel era critico di Cesare Beccaria, perché «il rapporto dei cittadini con lo Stato non è di natura contrattuale» contrariamente a quanto l'illuminista milanese sosteneva. Per affrettarci alla conclusione, Giametta condivide questa posizione di Antonio Cassese: «La battaglia contro la pena di morte non deve assorbire tutta la nostra attenzione. Se si vuole la fine del patibolo, bisogna nel contempo battersi per la prevenzione sociale dei crimini. E bisogna battersi contro la disumanità delle carceri in tanti Paesi del mondo. Che senso ha suggerire la carcerazione come pena alternativa alla sedia elettrica, se poi nelle carceri si soffre perché sono sovraffollate, degradanti, inumane, e tanti detenuti si suicidano, talché si finisce con una pena capitale “auto-inflitta”?».