Rubriche

GENERE E BUSINESS

Marina Terragni sabato 22 aprile 2017
Qualche settimana fa all'Università Statale di Milano il convegno "Fare e disfare il genere-Contro la violenza eteropatriarcale".
Ho sempre creduto di potermi tutelare meglio da quella violenza radicandomi nella mia differenza femminile. Soggettivo. Ma le oggettività non mancano.
I casi di disforia di genere (origine della transessualità) sarebbero passati dallo 0,1 per cento della popolazione al ragguardevole 1,2 per cento registrato tra i bambini neozelandesi o all'1 per cento degli olandesi. In tutto l'Occidente nascono centri per trattare questi minori con blocco farmacologico della pubertà, propedeutico a successive terapie ormonali e chirurgiche. Un biobusiness colossale.
I media mainstream, italiani compresi, salutano la novità come fattore di progresso. Si minimizzano il dolore e la fatica di questa esperienza limite, che ho visto da vicino e che va in ogni modo rispettata e accompagnata.
L'identità in transizione diventa paradigma dell'umano. Insomma, c'è quasi da augurarselo.
Come ha scritto una militante queer, il cis- (ovvero l'essere a proprio agio nel corpo di nascita) «deve scomparire».
Nel 1984 Ivan Illich profetizzava: «Le società in cui è crollato il regno del genere sono capitalistiche: i loro soggetti neutri sono produttori individuali… la scomparsa del genere degrada le donne più ancora degli uomini». Follow the money. Cercate le tracce del quattrino.