Ancora una volta la letteratura arriva dove alla storia era precluso arrivare, perché "i fatti" interessano sia la storia sia la letteratura, ma la letteratura ci aggiunge l'interpretazione e, risalendo alle cause, spiega i sentimenti.
L'ultima notte dei fratelli Cervi, di Dario Fertilio (Marsilio, pp. 256, euro 17), è un romanzo che non invade il territorio degli storici, ma osa addentrarsi nei retroscena di una pagina di storia, appunto l'assassinio dei sette Fratelli Cervi, perpetrato dai fascisti il 28 dicembre 1943, fatto storico entrato nella leggenda perché tramandato narrativamente dall'attivissima macchina organizzativa del Partito comunista. A ridosso della tragedia uscì il libro di memorie del padre dei martiri, Alcide,
I miei sette figli, in realtà allestito dallo scrittore Renato Nicolai con la supervisione della dirigenza comunista. Poi ci mise le mani addirittura Italo Calvino, sotto il controllo di Togliatti in persona, e di edizione in edizione l'epopea fu progressivamente aggiornata, epurata (via gli elogi a Stalin, dopo la rivolta d'Ungheria), riscritta e comunque rimasta testo fondazionale della letteratura ideologica comunista. Le pagine di Fertilio, «non hanno lo scopo di accreditare una verità eretica al posto di quella ortodossa. Non si propongono di scalzare un mito distruggendo il suo ethos. E neppure di ingaggiare una battaglia di documenti. L'unico intento è proporre una lettura differente dei fatti». E la lettura di Fertilio, suffragata da fonti attendibili, è sconvolgente. Attorno ai sette fratelli, comunisti sì, decisi a combattere i fascisti, ma senza uccidere, il partito fece terra bruciata: li considerava "anarchici", non veri comunisti, troppo indipendenti, poco ossequiosi alle direttive. E così, alla vigilia dell'esecuzione, quando si sentivano braccati, complice il tradimento di un doppiogiochista (comunista con i comunisti, fascista con i fascisti) i sette fratelli trovarono sbarrate tutte le "case di latitanza" che il partito aveva allestito per dare rifugio ai ricercati, e per loro non ci fu scampo. Tanto più che i Gap uccidevano i gerarchi fascisti apposta per provocare le rappresaglie, in una delle quali caddero, appunto, i fratelli Cervi. Per sviluppare la sua ipotesi, Fertilio si serve di Archimede, personaggio narrativo, descrivendo la sconvolgente "educazione" di un giovane contadino che entra nei Gap e subisce l'iniziazione al delitto, partecipando a tre attentati in cui peraltro la sua partecipazione non è direttamente attiva. Soprattutto il terzo attentato, contro un prete fascista (che però aiutava sia i rossi sia i neri), non va a segno perché Archimede finalmente apre gli occhi. Gli avevano insegnato che quello che avrebbe commesso «non era un delitto. Era un atto autentico di giustizia contro una spia», ma in realtà si apprestava a uccidere una persona, non un simbolo. E l'interrogativo di fondo del romanzo verte proprio su chi sono i giusti. Sono giusti i dirigenti che ordinano di uccidere secondo elaborate strategie che passano per tattiche delittuose? O giusti sono quelli come Lino, il fratello di Archimede, che lavora onestamente alle Officine Reggiane e viene falciato dalla mitragliatrice di un aereo americano? L'iniziazione e la presa di coscienza di Archimede sono raccontate in una prosa esatta che fin dalle prime pagine tiene avvinto il lettore e lo induce a riflettere sulla storia e su sé stesso, nonché a valutare la superfluità di tanta bestselleristica che intasa le librerie.