A praticare uno spazio limitato come quello di questa rubrica ci si abitua a pesare e risparmiare le parole. Il rischio naturalmente è nella dismisura fra l'esiguità verbale e l'enormità dei problemi a cui rimanda. Ma proprio quando sentiamo il bisogno di parlare di cose essenziali, sentiamo anche che le troppe parole rischiano di tradire l'essenzialità cercata. Nell'attuale onnipresenza delle comunicazioni di massa nuove e vecchie lo sperpero di parole incombe e soffoca, eccita e distrae. Sembra che il fiume di parole dette e scritte serva più a non pensare che a concentrare l'attenzione, più a dissipare le energie del conoscere e del sapere che a favorire consapevolezze approfondite e durevoli. In un mondo che procede per automatismi, affollato e presidiato da macchine ingegneristiche e organizzative, le parole sono usate soprattutto come lubrificante indispensabile al loro funzionamento efficiente e veloce. In politica, poi, le parole sono spesso narcotico, vacuità e falsificazione. Mascherano sia il non agire che la violenza del potere. Nelle prime pagine di un molto utile pamphlet di Gianfranco Bettin, I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica (e/o, pagine 207, euro 9), viene ricordato un severo discorso di Greta Thunberg dedicato ai politici di tutto il mondo: «Finora abbiamo avuto trent'anni di bla, bla, bla e questo dove ci ha portato? (…) Invitano giovani selezionati a incontri come questo per fingere di ascoltarci (…) Costruire meglio, bla, bla, bla. Economia verde, bla, bla, bla. Zero emissioni entro il 2050, bla, bla, bla. Parole altisonanti ma finora non hanno portato all'azione». Bettin è da decenni attivista sociale e ambientalista tra Porto Marghera (dove è nato e vive) e Venezia. Sa di che cosa parla. È il solo politico che conosco che sia privo dei più endemici difetti dei politici: al primo posto la chiacchiera. Possibile che si debba uscire dai luoghi della politica per dare il giusto valore al rapporto fra parole e azioni?