Fra padri e figlie, relazioni difficili in letteratura
Mirra prova verso suo padre Cinira, re di Cipro, un sentimento che si sforza di reprimere e di cui lei stessa ha paura. La sua vecchia nutrice, però, coglie alcune allusioni e la spinge a realizzare il suo desiderio, introducendo per dodici notti la ragazza nel talamo del padre. Il quale vuole finalmente vedere il volto della giovane compagna notturna e, acceso il lume, scopre la verità. In un impeto d'ira vorrebbe uccidere la figlia, ma Mirra fugge in un bosco e, ormai incinta, viene trasformata in albero che produce una resina profumata, la mirra, appunto. Al tempo opportuno, Giunone Lucina, impietosita, apre una fenditura nell'albero e ne esce il figlio che non sarà il mostro che si poteva supporre, bensì il bellissimo Adone, di cui Venere stessa si innamorerà.
Questa cruenta storia è la filigrana dell'interessantissimo libro di Maria Serena Sapegno, Figlie del padre (Feltrinelli, pagine 254, euro 20), col sottotitolo Passione e autorità nella letteratura occidentale. L'autrice, con un passato di militante femminista sessantottina, passa in rassegna, con felicità di sintesi, i testi principali focalizzati sul rapporto padre/figlia: dall'antichità classica a Boccaccio, a Shakespeare, padre di due figlie, che in ben ventuno opere (con i vertici di Re Lear e della Tempesta) affronta i rapporti conflittuali tra padri «riluttanti ad accettare il proprio declino» e figlie amorevoli, pur in cerca di emancipazione.
L'Illuminismo, soprattutto col teatro (prima Metastasio, poi Goldoni, Diderot, Lessing) affronterà partitamente il tema, e con Schiller scoprirà il dramma borghese soprattutto con Intrigo e amore (1784) che verrà ripreso nella Luisa Miller di Cammarano-Verdi. Vittorio Alfieri rielaborerà la Mirra ovidiana con tratto di continuità «nella connotazione del padre come del tutto estraneo alla colpa, che ricade pertanto, anche qui, interamente sulla figlia».
Sul finire del Settecento, la novità è che sono le donne a prendere la penna per raccontare i loro problemi: dal finale di Cecilia, di Fanny Burney (1782), Jane Austen trarrà il titolo del suo più celebre romanzo, Orgoglio e pregiudizio (1813). Gradualmente, la figura del padre si generalizza nell'analisi del potere maschile: «Uno degli aspetti più interessanti dei romanzi scritti da donne è il modo in cui vi si ridisegna una figura di uomo un po' diversa, che volontariamente si costringe a non esercitare pienamente il proprio potere». Infatti, «le scrittrici si collocano nella posizione di figlia e la negoziano, colludendo e/o opponendosi e proponendo infine una nuova idea di uomo, per quanto molto contraddittoria. Sembra infatti ben presente, accanto al desiderio di autodeterminazione, un vero e proprio "godimento della dipendenza" che indicherebbe chiaramente come il processo di cambiamento in corso non porti di necessità più potere alle donne».
Poi verranno Mary Shelley, le sorelle Brontë, Virginia Woolf e, cronologicamente sempre più vicine a noi, Simone de Beauvoir, Anna Banti, Gianna Manzini, Natalia Ginzburg e tantissime altre. Il punto più interessante, comunque, riguarda il rapporto col padre nella scrittura delle figlie. Come scrive Cristina Comencini nella breve postfazione, «quando ho cominciato a scrivere avevo davanti a me, o meglio dentro di me, due mondi: uno potente e sperimentato, quello di mio padre, già incarnato in parola dagli artisti, e quello ancora muto ma ugualmente potente del mio corpo e della mia mente di donna, appena scoperto e parzialmente rivelato da alcune geniali scrittrici. Un doppio linguaggio, appunto». Tutto si gioca su questa duplicità, per non dire doppiezza. Sulla libertà «di essere doppie».