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«Fra Gerusalemme e Roma» un documento che apre a un futuro pieno di speranza

Salvatore Mazza sabato 2 settembre 2017

Porta la data del febbraio 2016, ma è stato reso noto solo all'inizio di quest'anno. E a qualcuno potrà anche sembrare strano che "Fra Gerusalemme e Roma", risposta ufficiale del mondo ebraico alla dichiarazione Nostra aetate, arrivi a oltre 50 anni dalla pubblicazione del documento conciliare che tratta dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e le religioni non cristiane. Ma, d'altra parte, non c'è dubbio che fosse un tempo necessario, in qualche modo, perché come ha detto Papa Francesco giovedì scorso, ricevendo dalle mani di una rappresentanza di rabbini di tutto il mondo il documento, questo tempo trascorso stato indispensabile. Infatti la «progressiva attuazione» del testo conciliare «ha permesso ai nostri rapporti di diventare più amichevoli e fraterni. Nostra aetate ha messo in luce che inizi della fede cristiana si trovano già, secondo il ministero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosé e nei suoi profeti e che, essendo grande patrimonio spirituale che abbiamo in comune, va promossa fra noi la conoscenza e stima, soprattutto attraverso studi biblici e colloqui fraterni».


Un cammino lungo, complesso, a tratti difficile. Però tuttavia costante, tenacemente percorso nonostante mille ostacoli e, talvolta, persistenti diffidenze e incomprensioni. Un cammino anticipato dal gesto rivoluzionario di Giovanni XXIII, che in un sabato della 1959, mentre passava sul lungotevere, fece fermare la sua macchina di fronte alla sinagoga per benedire gli ebrei che ne uscivano; e che nel viaggio di Paolo VI in Terrasanta, di cinque anni più tardi, ebbe il suo primo, irresistibile impulso. Fino al 13 aprile del 1986, data che segna un vero e proprio punto di non ritorno nei rapporti tra cattolici ed ebrei: il giorno in cui Papa Wojtyla entrò, primo Pontefice nella storia, nel tempio maggiore di Roma, accolto dal rabbino Elio Toaff. «Insieme – ricorda questi nella sua autobiografia – entrammo nel tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come un sogno, il Papa al mio fianco, dietro cardinali e prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci rivolgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l'applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l'importanza di quel momento... L'applauso di nuovo scoppiò irrefrenabile quando il Papa disse: "Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori"».


Da allora quell'espressione, «fratelli maggiori», risuonata centinaia e centinaia di volte nelle parole dello stesso Wojtyla e dei suoi successori, Benedetto e Francesco, è entrata in qualche modo nel lessico comune. E quasi se n'è persa, come a volte succede, la poderosa valenza teologica e la straordinaria spinta in essa inscritta a un dialogo concreto che sia capace di esprimersi a tutti i livelli. Un'espressione alla quale, oggi, il documento "Fra Gerusalemme e Roma" risponde, in qualche modo, chiamando i cattolici «partner, stretti alleati, amici e fratelli nella ricerca comune di un mondo migliore che possa godere pace, giustizia sociale e sicurezza». E ciò per esprimere «la ferma volontà di collaborare strettamente oggi in futuro».
Nel ringraziare, giovedì scorso, i suoi ospiti, Papa Bergoglio ha sottolineato come «nonostante profonde differenze teologiche cattolici ed ebrei condividono credenze comuni». «È tanto importante questo! – ha detto il Papa –. Possa l'eterno benedire e illuminare la nostra collaborazione, perché insieme possiamo accogliere e attuare sempre meglio i suoi progetti, progetti di pace e non di sventura, per un futuro pieno di speranza».