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Flânerie parigine Fra attualità e conformismo

Cesare Cavalleri mercoledì 9 febbraio 2022
Lo abbiamo imparato da Baudelaire, sommo flâneur, il verbo flâneur che sta per passeggiare senza meta, bighellonare, perdere tempo, dove il significato positivo e quello negativo si sovrappongono. Il flâneur non è necessariamente uno sfaccendato, un perdigiorno, può essere un intenzionale esploratore di paesaggi urbani, senza la compulsività del turista che viaggia per autenticare sul posto il dépliant che l'ha indotto a partire (come spiega Emanuele Samek Lodovici). In italiano non c'è un equivalente: per assonanza, l'espressione "far flanella" significa spregiativamente "perdere tempo" e si applicava (lo conferma la Treccani) a chi indugiava nei bordelli senza chiedere prestazioni. Felicemente scomparse le case chiuse, è scomparsa senza rimpianto anche la locuzione "far flanella". Roberto Mattioli ha raccontato le sue flânerie in Un italiano a Parigi (Garzanti, pp. 144, euro16), garbata ricognizione ad alto tasso di soggettività ben sintetizzata dal sottotitolo: "Storia di un amore". Di Parigi, infatti, ci si può innamorare e chiunque ci sia stato almeno una cottarella se l'è presa. Il libro non è una guida turistica e non si sofferma sui luoghi più noti della città: coglie però lo spirito di una città «affascinante appunto per le sue contraddizioni: sussiegosa e ribelle, elegante e trasandata, frivola e serissima, curiosa di tutto ma attaccatissima alla sua identità, graziosa e terribile». «Per capire i parigini - scrive Mattioli - una buona occasione è andare a vedere una mostra. Possibilmente, a un'ora insolita tipo le tre, proprio le tre dopo mezzanotte, non le quindici. È un corso accelerato sullo snobismo intellettuale dei parigini e sulla vocazione culturale un po' sofisticata della città». Mattioli ne fece esperienza, quand'era corrispondente da Parigi per "La Stampa", con una mostra di Edward Hopper visitata, appunto nel cuor della notte. Dentro c'era una folla come alla stazione del métro di Châtelet all'ora di punta. «Un sondaggio fai-da-te conferma la potenza del marketing culturale. Su un campione di dieci fra barbuti e morose/i, cinque sono venuti a vedere Hopper "perché ne parlano tutti", due perché gliel'ha consigliato un amico, uno perché gliel'ha ordinato il professore, uno "perché voleva fare qualcosa di diverso dal solito" e uno, anzi una, "perché è un modo diverso di passare la serata, n'est-ce pas?". In effetti, sì». Si può agevolmente saltare il capitolo "Parigi in piazza" in cui viene esaltata la compostezza con cui si sono affrontate le schiere favorevoli o contrarie al «matrimonio per tutti». Il risultato di «questa Francia che ci piace» è che il 29 maggio 2013 la sindaca Héléne Mandrou ha celebrato solennemente il matrimonio tra Vincent Autin e Bruno Boileau, «primi due sposi dello stesso sesso della storia francese». A me, invece, questa Francia che affida alla statistica la decisione su che cosa è bene e che cosa è male, proprio non piace.