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Fine o passaggio

Ivano Dionigi giovedì 5 marzo 2020
Alla domanda «Che cos'è la morte?» (mors quid est?), Seneca, nella Lettera 65, adottando l'alternativa socratica enunciata da Platone (Apologia di Socrate 40c), risponde così: «o fine o passaggio» (aut finis aut transitus). Con questo dilemma il filosofo stoico ricapitola tutto il dibattito sul tema riconducendolo a due concezioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro per cui la morte era "la fine", e dall'altro quella spiritualistica, variamente declinata, di Pitagora, di Platone e dello Stoicismo, per cui la morte era "il passaggio" ad altra vita o anche "il ritorno" (reditus) al luogo da dove siamo venuti. Tuttavia anche il passaggio o il ritorno non significavano sopravvivenza individuale, ma riconversione nel tutto, in un avvicendamento cosmico. Siamo di fronte non alla soluzione bensì alla rimozione del problema, perché l'uomo della classicità, non credendo alla creazione, non aveva un dio cui chiedere conto del "perché" della morte. Opposta è la soluzione della rivelazione per chi crede: Cristo, morendo e risorgendo, ha decretato la morte della morte, per cui Paolo potrà gridare con la Scrittura: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. / Dov'è, o morte, la tua vittoria? / Dov'è, o morte il tuo pungiglione?».