Tra i ricordi meno dimenticabili che ho archiviato, c’è una frase di John Lennon che andrebbe scolpita nel marmo: «Quando ero piccolo, a scuola mi domandarono cosa volessi fare da grande. Io scrissi “Essere felice”. Mi dissero che non avevo capito il compito, e io risposi che loro non avevano capito la vita».
Basta guardare un bambino al parco giochi: il massimo della felicità che puoi desiderare, a volte, può essere un’altalena. Questione di età, di prospettive, di ampiezza di pensiero. Ma nel clima buio che ci avvolge in giorni con pochi sorrisi, ha ancora senso parlare di felicità? Probabilmente sì, perché l’unico, vero traguardo della vita lo diventa ancora di più quando i punti di riferimento si annebbiano e il futuro sfugge. E perché difendere uno spazio di sopravvivenza emotiva è sempre e comunque una buona ragione per impegnarsi.
Ho scoperto con soddisfazione che la ricerca della felicità è un bisogno fondamentale dell’uomo riconosciuto nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America già dal 1776, dove si dice che si tratta di
un diritto inalienabile, «un dono elargito da Dio per il quale viene riconosciuto anche il diritto alla sua ricerca». Il resto è calcolo e pensiero. A volte per cambiare approccio con le cose basterebbe considerare che per ogni minuto che sei arrabbiato perdi 60 secondi di felicità. Tanti, troppi per non pensarci.
© riproduzione riservata