Lungo la banchina di Custom House, verso la foce del fiume Liffey, a Dublino, se cammini spensierato verso la baia, distratto dalle navi e dai gabbiani, probabilmente sferzato dal vento oceanico, potresti persino non accorgerti di star passando in mezzo alle statue filiformi e sempre più arrugginite di Rowan Gillespie: uomini e donne che procedono sofferenti con fagotti e bambini, le vesti stracciate, i volti emaciati, un cane scheletrico che annusa qualcosa dietro di loro. L’opera, installata nel 1997 per ricordare la terribile carestia patita dagli irlandesi agli inizi del ventesimo secolo che li spinse ad abbandonare le loro case con il sogno dell’America, può rappresentare oggi tutti i migranti, provenienti dai Paesi più poveri del pianeta, impegnati a compiere verso di noi il medesimo viaggio intrapreso un tempo dagli europei diretti nel Nuovo Continente. Pantaloni stracciati, camicie sporche, sguardi persi nel vuoto. Dove andremo? Cosa faremo? Questa non è più la Dublino di Phonix Park, né quella dei grandi magazzini e dei pub che pullulano nel centro storico. Cammino ancora avanti nel cielo azzurro che entra dentro la città finché, giunto al porto, ripenso al “paese senza tracce” che in una poesia di Samuel Beckett vietava al protagonista di uscire dalla propria solitudine.
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