All'alba come al tramonto: siamo circondati da gente che corre. Muoversi è una meta, non solo una partenza. Una vibrazione d'asfalto: il destino di chi lo calpesta è un nastro di fatica. Dicono quelli che la praticano che nella corsa senti la tua anima e la tua mente che si liberano. Che si corre perché il cuore con il suo pulsare, ti dà il ritmo dell'esistenza. Gambe, solitudine, traguardo: molti sognano la maratona. Che è una storia di piedi, uno dopo l'altro, quarantadue chilometri e centonovantacinque metri di passi che non finiscono mai. L'acido lattico che morde i polpacci, che ti fa urlare basta. La maratona è un esercizio da fachiri del fiato. Come Filippide, il ragazzo soldato, 490 anni prima di Cristo. Era d'estate, sembra adesso. Lui correva con l'odore del sangue addosso, i persiani sconfitti: lo aspettava la medaglia dell'onore. Messaggero di orgoglio, una spremuta di milza per diventarlo. Corri Filippide, vai. Una sola frase da gridare ad Atene, quando sarebbe arrivato: "Nenikèkamen". Abbiamo vinto. Arrivò Filippide, raccontò la frase per cui aveva corso tanto. E cadde a terra, sfinito. Morto. Leggenda, verità? Che importa. Maratona, per loro, per noi, è la traversata, il ritorno. In fondo, si fugge sempre per arrivare da qualche parte. Si corre, si cambia: la vita è un viaggio per tutti. Filippide è solo una storia.