Europa, una questione di valori più che di stile
A caldo si sono aperte le cataratte delle accuse, soprattutto “da sinistra”, che hanno addebitato alla ex beniamina politica di Angela Merkel la volontà di imporre a chi vuole entrare nel Continente la rinuncia alla propria identità etnica e culturale, in una sorta di assimilazione forzata, che non a caso ha raccolto il plauso dei difensori di un non meglio precisato homo europaeus. La marea critica ha riunito in un solo schieramento personalità di aree anche diverse, come l'uscente Juncker, il presidente dell'Europarlamento David Sassoli, l'Eliseo, Amnesty International, esponenti Verdi di ogni sfumatura e così via. Ne è seguita la richiesta, da alcuni perentoria, di cambiare la definizione e il mix di competenze.
Nei giorrni successivi “VdL” ha replicato pacatamente, tenendo duro sulla denominazione perché «non possiamo lasciare che altri ci privino della nostra lingua», ma spiegandola in modo quasi opposto a quello da molti interpretato in un primo momento. Il nostro incompreso stile di vita, in estrema sintesi, sarebbe quello illustrato dall'articolo 2 dei Trattato istitutivo della Ue, dove si parla “del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e del rispetto dei diritti umani”, tra i quali quelli “delle persone appartenenti alle minoranze”. E per spiegarsi ancora meglio Frau Ursula ha messo nel mirino tutti i populisti e i sovranisti interni ed esterni ai confini dei “28” (perché tanti ancora siamo), che minaccerebbero «la nostra Unione di solidarietà, tolleranza e affidabilità».
Ma come si diceva tutto ciò non è bastato a chiudere la querelle. Né forse lo poteva, per l'ambiguità insita nel termine “stile”, che fa pensare a comportamenti esteriori, abitudini, atteggiamenti, piuttosto che a principi, criteri di giudizio o, per l'appunto, valori condivisi. Vero è che la presidente della Commissione è rimasta coerente con quanto da lei affermato nei sei obiettivi annunciati a metà luglio, nel discorso successivo alla nomina: il quarto di essi era proprio la “tutela dello stile di vita europeo”, che all'epoca non aveva destato scalpore, forse perché non associato alle questioni migratorie.
Tuttavia Ursula von der Leyen avrebbe fatto molto meglio a citare, invece del Trattato, la Carta dei diritti dell'Unione, meglio nota come “Carta di Nizza”. Nel preambolo di quel documento, nel quale purtroppo non si ebbe il coraggio di citare le radici cristiane dell'Europa, si fece comunque riferimento al “patrimonio spirituale e morale” dei suoi Paesi membri, specificando che l'Ue “pone la persona al centro della sua azione”. Niente stili uniformi, dunque, ma rispetto e valorizzazione delle differenze. Sia nazionali, che dei singoli individui. E per quanto riguarda l'aiuto ai più deboli, sarebbe ora che l'Europa a rischio di avvitamento demografico riaprisse il dossier di una reale tutela della vita umana, dal suo nascere al suo tramonto, rinunciando a difendere e a diffondere, su questo terreno, solo presunti “diritti” all'aborto, all'eutanasia o all'affitto degli uteri.