Dato che mi ritengo un autore da rivista ,le molte riviste che ricevo le leggo, cioè leggo qualcosa e le sfoglio sempre con curiosità. Per esempio ho letto con curiosità e consenso l'editoriale di Giuliano Ladolfi sull'ultimo numero (52) di «Atelier», rivista che lo stesso Ladolfi dirige. Partendo da lontano, Ladolfi scrive: «È possibile calcolare il numero di applicazioni che la critica crociana, marxista, formalista e strutturalista ha prodotto? Lo schema jakobsoniano della comunicazione ha imperato e impera non soltanto nelle antologie scolastiche, ma soprattutto negli elaborati dei dottorandi e nelle pubblicazioni delle maggiori case editrici». Non so se questo è vero. A me pare quasi incredibile che si sia ancora a questo punto. Ma se Ladolfi lo dice avrà le prove. È comunque vero che gli scienziati della comunicazione di solito non sanno comunicare, ripetono formule. Ed è vero quello che viene detto subito dopo: «Nella seconda metà del secolo scorso la critica italiana, per lo più, si è modellata sugli schemi stranieri (") È diffuso tra l'intellighenzia nostrana uno strano e acritico complesso di inferiorità che spinge a ritenere che tutto ciò che viene dall' estero (")
è di per se stesso valido».
Leggo poi cinque interventi, tutti italiani, sul tema «Poesia e conoscenza» e noto che gli autori citati sono i seguenti: Gottlob Frege, Dante, Lucrezio, Omero, Hoffmansthal (sic!, in realtà: Hofmannsthal), Eraclito, Platone, Aristotele, Edelman, Derrida, Szymborska, Barthes, Caproni, Florenskij, Cvetaeva, Bachelard, Valéry, Brodskij, Baudelaire, Lewis Carroll, Petrarca, Ponge, Cage, Goedel... Da un lato grandi classici, dall'altro tutti o quasi autori stranieri. Possibile che fra gli italiani moderni solo Caproni abbia fatto capire qualcosa del rapporto fra poesia e conoscenza? Il direttore di «Atelier» evidentemente se ne rende conto: i suoi collaboratori tendono a parlare fra loro e ai lettori dimenticando la cultura italiana.