Ogni volta che si parla di IOR la mente va subito a intrighi, storiacce, misteri, colpevole incompetenza. In effetti l’Istituto per le Opere di Religione non gode di buona stampa, e senza dubbio molte cose scoperchiate grazie all’azione decisa di Papa Francesco sono poco encomiabili. Interessi privati, bugie, malversazioni, non è mancato niente. Ma la “leggenda nera” sullo IOR è senza dubbio molto al di là di quanto sia realmente successo (a iniziare da monsignor Paul Marcinkus, dipinto come un’anima nera, quando invece era solamente un incapace. Nella storia del crac del Banco Ambrosiano lui era una comparsa, l’americano credulone che si compra la Fontana di Trevi di “Totò truffa”), e ho l’impressione che difficilmente potrà essere cambiata. Ma varrebbe la pena partire dal nome, Istituto per le Opere di Religione, per capire quale sia il vero compito e la missione dello IOR, e cioè di finanziare le opere di religione. Un lavoro nascosto, lontano dai riflettori, e di cui si sa qualcosa solo perché qualcuno dei beneficiari ha parlato. Alla fine degli anni ottanta a farlo fu don Mario Picchi, fondatore del Centro Italiano di Solidarietà, a rivelare che l’attività del Ceis per il recupero dei tossicodipendenti era possibile solo grazie all’Istituto; mentre qualche anno più tardi il cardinale Fiorenzo Angelini, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, in un’intervista per questo giornale, mi confidò che la stragrande maggioranza dei dispensari in cui operavano i missionari in America Latina, India e soprattutto in Africa erano stati aperti grazie allo IOR. E sono centinaia di migliaia le persone che oggi in Africa possono accedere alle cure solo grazie ai dispensari missionari. Che sono importantissimi, come ha detto Papa Francesco una settimana fa ricevendo i Medici con l’Africa-Cuamm, perché «la salute è un bene primario, come il pane, come l’acqua, come la casa, come il lavoro. Voi vi impegnate perché non manchi il pane quotidiano a tanti fratelli e sorelle che oggi, nel XXI secolo, non hanno accesso a un’assistenza sanitaria normale, di base. È vergognoso: l’umanità non è capace di risolvere questo problema, ma è capace di portare avanti l’industria delle armi che distruggono tutto. Si spendono miliardi per le armi, si bruciano altre enormi risorse nell’industria dell’effimero e dell’evasione… quando preghiamo «dacci oggi il nostro pane quotidiano», dovremmo pensare bene a quello che diciamo, perché tanti, troppi uomini e donne, di questo pane, ricevono solo le briciole, o nemmeno quelle, semplicemente perché sono nati in certi luoghi del mondo. Penso a tante mamme, che non possono avere un parto sicuro e a volte perdono la vita; o a tanti bambini, che si spengono già nella prima infanzia». Essere «con l’Africa, prima ancora di essere per l’Africa». E questo è l’atteggiamento giusto per guardare a quel Continente «perché c’è nell’immaginario, nell’inconscio collettivo, quell’atteggiamento brutto: l’Africa va sfruttata. E contro questo c’è il vostro no: essere con l’Africa. Così, essere con l’Africa è essere per l’Africa. Da quella esperienza è partito un cammino di condivisione e di servizio che in questi 70 anni ha attraversato quasi tutto il continente africano per portare assistenza medica, sempre in un’ottica di sviluppo e prediligendo la formazione del personale locale. C’è un grande capitale intellettuale in Africa: dobbiamo aiutare a svilupparlo».
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