Rubriche

Esiste anche la «casta» letteraria, gli intellettuali non sono innocenti

Alfonso Berardinelli sabato 6 ottobre 2007
«E ora chiamiamoci fuori dalla casta letteraria. Industria culturale e intellettuali invitati alla trasparenza». Così ieri Il Riformista titolava un breve, ottimo intervento di Filippo La Porta. Sarei tentato di citarlo da cima a fondo evitando di aggiungere altro. Ogni tanto, almeno una volta l'anno, sarebbe bene riflettere in pubblico su caste, corporazioni, poteri molecolari, cricche, mafie, favori e discriminazioni.
Qualche anno fa Carla Benedetti pubblicò il suo pamphlet Il tradimento dei critici, cosa che le giovò poco. Nei suoi confronti fu quasi un ostracismo. Ma credo che non si tratti semplicemente di cattiveria, ipocrisia e corruzione. Il guaio è che si tratta anche di buona fede. Almeno nel nostro Paese si è spesso corrotti in buona fede. Il sistema, il costume, l' "andazzo" generale prevedono una quota di do ut des e di scorrettezze che in altre società democratiche sembrerebbe inaccettabile. Noi invece di avere il complesso di colpa, abbiamo il complesso dell'innocenza. Mettiamo in piedi non solo mafie cattive, ma soprattutto mafie buone. Mafie a fin di bene.
Fa parte del senso comune l'idea che le parole e le idee non contano se non hanno un potere aggiunto, organizzativo e politico. Per essere "incisivi", per migliorare le cose, anche nel campo intellettuale letterario bisogna fare politica. Ci vogliono i gruppi, i partiti, i mass media, le cariche pubbliche, le alleanze, gli appoggi, gli schieramenti, i favori. Bisogna mettere la verità sul veicolo giusto. Dunque, perché la verità abbia influenza pubblica bisogna occuparsi molto del veicolo e di chi lo manovra. Le mafie buone e cattive (anche le cattive si credono buone) nascono così.
L'intellettuale che crede di diventare più forte e di migliorare il mondo con la politica, smette di essere un intellettuale. Di intellettuali che hanno smesso di esserlo ce ne sono molti. Sono loro la casta. E non lo sanno.