Due anni fa. Era il 19 febbraio. Da pochi giorni il Covid era arrivato a Lodi. A Milano, ufficialmente, non ancora. Nel Pronto Soccorso di un ospedale del centro i malati sulle barelle formavano una lunga coda nel corridoio. Tutti anziani, febbricitanti, soli, perché i parenti attendevano fuori – o, anche, perché nessuno li aveva accompagnati. Molti erano lì dalla sera prima, la notte sulla barella passata a tossire, insonni. Chi, sfinito, gli occhi chiusi, taceva, chi si lamentava. Una donna piangeva: doveva andare in bagno, ma nessuno l'aiutava ad alzarsi. Passò un infermiere di corsa, si scusò, affannato: “Io sono solo, e voi siete in dieci”. Quei malati erano digiuni da ore, chiedevano a chi passava dell'acqua. Io, in un angolo, accanto a una persona cara, ero attonita. Da ragazza ero volontaria sulle ambulanze, conoscevo gli ospedali, ma così, a Milano, non li avevo mai visti. Davvero il Covid ancora non c'era? Capii dopo: quello ne era l'esordio. Fra colpi di tosse e malati non accuditi, in quel corridoio mi sembrava gravasse una cortina pesante nell'aria. Ho insistito ostinatamente perché la malata che era con me fosse dimessa. Gli altri venivano mandati al Pio Albergo Trivulzio, dove il virus è poi esploso. Quei vecchi, mio Dio, con i capelli scarmigliati, l'angoscia negli occhi, soli. È così dunque che si muore adesso? mi chiedevo. 19 febbraio 2020, come una voragine si era schiusa nel centro di Milano.