Settecento pagine di impressionante erudizione in uno stile mai accademico, con incursioni in svariati campi del sapere com’è richiesto in un libro sulla musica, essendo la musica il sublimato delle arti. Stiamo parlando di Verdi a Parigi, nuova impresa di Paolo Isotta (Marsilio, euro 28), a breve distanza da La dotta lira. Ovidio e la musica (2018). Non è una biografia, è un affresco d’epoca attraverso l’analisi di dodici opere: Ernani, Giovanna d’Arco, Alzira, Jérusalem (rifacimento dei Lombardi alla prima crociata), Il trovatore, Macbeth, Don Carlos, Stiffelio, Rigoletto, La Traviata, I Vespri siciliani, Un ballo in maschera. Verdi giunse a Parigi nel 1847, a trentaquattro anni, preceduto dalla fama del Nabucco (1842). A Parigi, il bussetano scoprì il Grand–Opéra, il genere di opera seria che furoreggiava in Francia dal 1830 e continuò fino al 1870, caratterizzato dalla grandiosità: molti personaggi, cori, balletti, intermezzi strumentali, scenografie gigantesche, virtuosismo dei cantanti. Isotta lo descrive nel capitolo “Verdi e Meyerbeer”, richiamando l’attenzione sul grandoperista oggi ricordato quasi solo per l’aria Ombra leggera, vertiginosa di colorature, tratta dalla macchinosa Dinorah, ormai irrappresentabile. Qui non abbiamo spazio, e neppure un’adeguata competenza per seguirlo nei cespugli musicologici del libro («due crome in levare, due semicrome sul primo tempo della battuta, successiva una semiminima», eccetera), perciò, esprimendo la più sincera ammirazione per la perizia e l’acribia di Isotta, spendiamo qualche parola solo per il Macbeth verdiano, opera che più d’ogni altra amiamo. Verdi presentò il Macbeth alla Pergola di Firenze, nel 1847. Diciotto anni dopo, nel 1865, a Parigi, lo riplasmò nella fisionomia che tuttora conosciamo. Intensi furono gli interventi del maestro sul libretto di Francesco Maria Piave, che Isotta esemplifica nella cesellatura dell’Aria che la Lady canta nel secondo atto. Si era partiti da «Pallida divien la luce, il gran faro / che eterno viaggia per l’universo /si spegne» per arrivare, attraverso varie varianti, al vittorioso e definitivo «La luce langue, il faro spegnesi / ch’eterno corre / per gli ampi cieli». È l’occasione, per noi, di ribadire l’importanza del testo nell’opera lirica: versi comunque brutti come quelli trascritti, quando sono investiti dalla musica che li trasfigura, diventano meravigliosi specchi d’anima. Stranamente, il Macbeth a Parigi non piacque e, di fatto, per decenni uscì dai repertori. Arturo Toscanini, per esempio, non lo diresse mai, perché non aveva mai trovato un soprano con la voce “brutta” e maleficamente espressiva che le impervie note della Lady richiedevano. In un’audizione privata, Toscanini trovò nella Callas quello che inutilmente per anni aveva cercato. Ma il maestro ormai era vecchio, e non se ne fece nulla. La Callas fu la Lady nel Macbeth che il 7 dicembre aprì la stagione della Scala nel 1952, direttore Victor de Sabata. Come disse in eurovisione il commentatore del concerto che la Callas tenne a Parigi il 19 dicembre 1958, non fu un successo, fu un trionfo. Isotta scrive che solo negli anni Cinquanta il Macbeth ritrovò il palcoscenico in Italia, ma non cita la Callas. Non credo per inavvertenza.