Eppure «La dolce vita» non sconfisse il Grande Nulla
Nel capolavoro felliniano (capolavoro: nessuno ne dubita) viene in luce, scrive Iarussi, «una caratteristica del nostro mondo vissuto: le identità plurime in una stessa persona, anfibie, provvisorie, talora conflittuali. Sicché è possibile essere cattolico e adultero, statista e goliardico, potente e vittimista, ricco e idolo dei poveri». Modello antropologico che Berlusconi ha interpretato per primo ma che, afferma l'autore, riguarda anche la sinistra. In campo morale, l'et et non può sostituire l'aut aut.
Nella bibliografia sono elencate 120 opere che Iarussi – critico cinematografico e docente nell'Università di Bari – ha evidentemente schedato con cura, e il libro sembra nato da un'intelligente riclassificazione delle schede (gli autori sono debitamente citati fra parentesi quadre) senza però che ne emerga un'idea unificante: insomma, come in Fellini, è difficile capire dove finisca la descrizione “neutrale” e dove incominci la complicità. E, di Fellini, Iarussi non indaga il lato junghiano della sua frequentazione con Ernst Bernhard, il guru degli anni '60 alla cui scuola si formarono alcuni degli adepti della dissoluzione, cioè di quegli intellettuali attratti dall'esoterismo, tuttora attivi, i quali, considerando inarrestabile il degrado (ritenuto sorgente di rinascita), si impegnano ad accelerarlo.
Chiedo scusa (anzi, non la chiedo) dell'autocitazione, ma il 26 gennaio 1975 (sic), su questo giornale di cui all'epoca ero anche critico televisivo, scrissi a proposito del passaggio in televisione di La dolce vita, a quindici anni dall'esordio cinematografico: «L'immoralità di questo capolavoro non è nell'esibizione dei vizi di un certo tipo di mondo, quello dei divi e dell'aristocrazia romana, che ora appaiono lontani come le tresche degli dèi di un Olimpo che non è mai stato venerato: sta nello sguardo da escluso con cui Marcello [il giornalista accidioso e opportunista interpretato da Marcello Mastroianni] contempla quel mondo, e sta nella definitività del verdetto con cui i viziosi vengono condannati, nel mentre li si avvolge nel patetismo d'una compassione del loro stesso modo di soffrire».
«La dolce vita», scrivevo allora, «che è il film del disfacimento d'un mondo che ha escluso il soprannaturale dai propri orizzonti, contiene una profezia: “Il 1975 sarà la degenerazione completa”, dice un travestito nella livida alba dopo l'orgia finale. Che la profezia si sia largamente avverata, non ci sembra una conquista civile».
Curiosamente Iarussi, nel cinquantenario del film, conclude il libro con la stessa “profezia”, datandola però al 1965 anziché al 1975. Non ho sotto mano la sceneggiatura del film e quindi non so se il lontano lapsus è mio, o se è del recente Iarussi. Tenderei a darmi ragione, dato che le profezie richiedono un periodo abbastanza lungo. Comunque, trascrivo anche la conclusione di Iarussi che sigilla (come in Fellini) un'esatta diagnosi con rinuncia alla terapia: «Nella sequenza finale in riva al mare, dopo la notte brava culminata nello spogliarello di una signora-bene, un giovane travestito si lascia andare a una sconsolata profezia: “Nel '65 sarà tutta una depravazione completa. Mamma mia che schifezza ne verrà fuori”. Il mostro acquatico spiaggiato, pesce di Giona o di Pinocchio, lì sotto gli occhi della trista compagnia reduce dai bagordi, è una rappresentazione dell'Italia che verrà, il futuro a portata di mano eppure già agonico, con l'occhio sbarrato sul Grande Nulla».