A Tirana sono stato tante volte: vent’anni fa il nuovo aeroporto di Rinas, intitolato a Madre Teresa di Calcutta, era ancora in costruzione. Osservando lo stabile bianco di marca fascista posto di fianco alla torre di controllo pensai che l’Albania avrebbe potuto essere un nostro cugino lontano, una seconda pelle morta di cui avremmo dovuto farci carico. Blloku: questo il nome del quartiere che ricordo con nostalgia. Oggi è stato rinnovato, ma al tempo in cui lo vidi io era ancora pieno di palazzi non finiti che gli davano un aspetto trasandato e provvisorio. Le case, dipinte di verde, azzurro e rosso, parevano essere state piantate a terra in successione casuale, secondo il gusto di un bambino. Gli impianti esterni per l’aria condizionata assomigliavano a insetti. Le strade erano piene di buche. In lontananza spuntavano le montagne. Piazza Scanderberg di notte dava l’impressione di un quadro di De Chirico. Un centro commerciale si chiamava Casa Italia. Strinsi la mano al sindaco Edi Rama, altezza e storia da giocatore di basket, a quel tempo sindaco della città, poi premier del Paese. All’università gli studenti erano carichi di energia, freschi come ruscelli sorgivi: il mondo balcanico li spingeva verso di noi e la loro appropriazione della cultura occidentale aveva una rapacità straordinaria.
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