Emozionanti di sicuro ma non sportivi
Philippe Petit era un artista di strada, un giocoliere, ma soprattutto un funambolo. Dopo un incredibile curriculum di camminate sulla fune (per esempio fra i campanili di Notre Dame a Parigi o sopra le cascate del Niagara) vive oggi nella Cattedrale di Saint John the Divine, a New York, ospite del programma di residenza per anziani artisti. Il Decano emerito della Cattedrale, il reverendo James Parks Morton che Petit considera il proprio padre spirituale, dice: «Philippe non crede in Dio, ma Dio crede in Philippe».
Che senso possono avere, ieri come oggi, queste imprese? Che cosa spingeva un venticinquenne a metà degli anni 70 a rischiare la vita per, simbolicamente, unire due torri destinate a restare separate (e destinate poi a una tragica sorte che, come sappiamo, ha cambiato il mondo)? Che cosa spinge oggi un inventore francese, Franky Zapata, ad attraversare il canale della Manica su una tavola volante, centodieci anni dopo che fece la stessa cosa, su un rudimentale aeroplano, un altro francese pioniere dell'aviazione, che si chiamava Louis Blériot? Verrebbe da dire che c'è una tendenza dei nostri cugini d'Oltralpe a sfidare questi limiti: anche il povero Patrick de Gayardon, pioniere del volo con la tuta alare era nato in una nobile famiglia francese, nei pressi di Lione. Ma, al di là della provenienza geografica dei loro autori, si tratta forse di imprese sportive? No, non credo si possano considerare tali. Lo sport non mette mai in palio, tranne che per situazioni incidentali, la propria vita. Lo sport è un inno alla vita, alla competizione, mediata da regole, contro avversari che vogliono il tuo stesso risultato. Funamboli, pionieri dell'aviazione (del passato e del presente), alpinisti non sono sportivi nel senso moderno del termine, ma romantici ricercatori di un limite estremo, esseri umani che giocano con un'unica regola fondamentale: non basta realizzare un'impresa, ma occorre riuscire a dimostrare di poter tornare indietro, vivi, per poterla considerare tale. È il ritorno, da una traversata sulla fune ad un'altezza vertiginosa, da un volo, da una cima, a completare l'impresa. Sfide subordinate al voler tornare, a quella nostalgia nel senso etimologico del termine (nòstos, il ritorno, álgos, il dolore) che testimoniano il desiderio di uscire dai nostri umani limiti e, insieme, il dover rendere conto alla nostra fisicità e al rispetto per il dono della vita.
Lionel Terray, fortissimo alpinista francese, aveva coniato un'espressione per sé e per tutti coloro che hanno provato, provano e proveranno a spostare dei limiti per poter tornare da territori sconosciuti prima: «Siamo conquistatori dell'inutile», diceva. Volete sapere dove era nato Terray? A Grenoble!