Effetto-Sinner: garbo, passione e smart spenti
in delirio e in preda a una sinnermania non reversibile; di gente che il lunedì mattina entra in ufficio a fare l’impiegato, il cassiere in banca o l’assicuratore e domenica era sugli spalti con una parrucca arancione; degli albergatori che ti dicono che Torino così non la vedevano dal 2006; del pensionato sul tram che porta in testa un berretto con una carota ricamata e telefona, probabilmente a casa, per dire: “ma hai visto che roba?”. Parlerò della bimba che accompagna Sinner in campo e poi gli chiede: “Anche tu hai paura?”. Parlerò delle mamme che abbracciano i figli e dei papà che abbracciano le figlie di fronte a uno spettacolo sublime, parlerò di un palazzetto intero che sa stare in silenzio, con i cellulari in modalità silenziosa, senza un flash acceso, cosa che ormai non succede più neanche durante i minuti di silenzio o nelle commemorazioni ufficiali, e sa applaudire lo sconfitto Fritz con un’ovazione da pelle d’oca. Parlerò di adolescenti che riescono a stare più di un’ora concentrati e con gli occhi attenti su una cosa che non sia lo smartphone; del proprietario del chiosco che dice che lui fa solo panini, ma che magari fosse così anche solo due giorni al mese; di sportivi e politici famosi che esultano, ma poi sanno stare al loro posto, senza rubare la scena. Parlerò di gente normalissima e tutt’altro che famosa, che esce dall’Arena con gli occhi incendiati di bellezza. Insomma, sfilate via Sinner dalla nostra domenica e questo mondo, che già è brutto di suo, sarebbe ancora più infelice. Jannik, mentre la cronaca ci presenta personaggi che possiedono denaro, tecnologia e progetti distopici da sembrare i supercattivi dei fumetti, sembra davvero l’eroe buono, il Clark Kent di cui abbiamo bisogno. La meraviglia non è tanto quello che fa lui, in campo: è quello che fa a noi, fuori dal campo. E quanto ci spinga ad essere qualcosa che avevamo perfino dimenticato di poter essere. © riproduzione riservata