Sono stato tante volte al Salone del Libro di Torino, una città che amo, forse perché essendo cresciuto all’Esquilino, uno dei quartieri umbertini della capitale, ho sempre avuto negli occhi la scacchiera dell’architettura sabauda e quando scendo alla stazione di Porta Nuova ho l’impressione di tornare nella Casa Madre, tuttavia i ricordi più belli non sono legati alle ore trascorse negli stand affollati, bensì alle esperienze che ho avuto nei cosiddetti eventi collaterali, nelle biblioteche della periferia e soprattutto nel carcere di Lorusso e Cotugno. Indimenticabile l’incontro coi detenuti in una grande sala dov’erano tutti riuniti: vederli schierati come scolaretti compiti mi spinse a scendere dal palco per cercare un rapporto diretto. La partecipazione aumentò. Le domande fioccavano. I fili del microfono fra i piedi rischiavano di farmi inciampare, ma ne valeva la pena. Le facce truci coi tatuaggi e i muscoli scolpiti erano talmente concentrate da sembrare irreali. Spugne secche bisognose di acqua. Umanità allo stato puro. Ognuno avrebbe voluto raccontare la propria vita. Alla fine della conferenza una signora sudamericana venne verso di me e mi strinse la mano: non so come si chiamasse e che fine abbia fatto, ma sento ancora sulla pelle il suo calore affettuoso e riconoscente.
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