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è crisi nera per il grano duro

Vittorio Spinelli sabato 16 luglio 2005
Grano duro addio. Proprio così, sembra che uno dei settori storici della nostra agricoltura sia davvero giunto alla fine della sua vita. Colpa dei prezzi, ovvio. Ma, d'altra parte, la piaga delle quotazioni basse dei prodotti agricoli è un dato comune all'intero settore. Insomma, se da una parte le imprese verdi italiane riescono a conquistare primati d'eccezione; dall'altra, pare che questi ultimi siano più mezze vittorie che altro. Per il grano duro, tuttavia, la situazione appare davvero drammatica. «Il prodotto - ha denunciato la Cia in questi giorni - si vende a prezzi stracciati: 12 euro al quintale contro i 18-20 euro dello scorso anno. Venti anni fa il prezzo era di 50.000 lire, pari a 25,82 euro». Intanto, continua a crescere in maniera preoccupante l'importazione dai paesi extracomunitari, come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e persino il Kazakistan.
Oltre a tutto ciò, ci si è messa - stando alle dichiarazioni degli agricoltori - anche la riforma della politica agricola comune che ha decurtato del 28% gli ettari coltivati. E non basta, perché, nel frattempo, proprio l'ultima annata, pur in presenza di una buona produzione ha subito un tracollo del 30-35% dei prezzi. Alla situazione del grano duro si somma, d'altra parte, quella generale dell'andamento dei prezzi agricoli. Basta un dato - segnalato da Coldiretti - per capire tutto: alla diminuzione nei primi sei mesi dell'8% dei prezzi alla produzione, al dettaglio nulla sempre essere accaduto. In questo periodo, secondo i dati Ismea diffusi da Coldiretti, i cali di prezzo più accentuati alla produzione agricola si sono verificati non solo per i cereali ma anche per i vini (-21%), la frutta e gli agrumi (-16%), le coltivazioni destinate alla trasformazione industriale (-8%), così come per i comparti zootecnici (dal -3 al -6%). La morale di questa situazione è semplice, ma preoccupante. L'agricoltura continua ad esercitare un effetto «calmierante» sull'inflazione che, tuttavia, non riesce a trasferirsi - sempre stando alle rilevazioni dei produttori - al consumatore finale. I prezzi, quindi, scendono, ma solo per gli agricoltori che devono incassarli. E, fra l'altro, scendono sulle grandi produzioni, su quelle di massa. Non certo per i prodotti tipici e di nicchia. Cosa è necessario difendere quindi? A questa domanda si sente spesso rispondere che occorre battersi per le peculiarità del comparto, per quei 149 prodotti riconosciuti dall'Europa che valgono al consumo 8,5 miliardi di euro a cui si sommano altri 8 miliardi derivanti dai vini Doc e Docg e ancora altri 2,5 miliardi di export. Ma probabilmente una difesa di questo genere non è sufficiente. Dietro alle vetrine, infatti, ci sono le altre produzioni, magari di uguale qualità pur senza nessun blasone. Insomma, è pur vero che la nostra agricoltura può mettere in fila primati di indubbio valore, ed è altrettanto vero che in tutte le sedi questi primati vanno portati ad esempio. E' però irrinunciabile mettere mano a una strategia diversa per il resto del comparto.