Rubriche

E così l'erudizione del critico ha spento la poesia

Cesare Cavalleri mercoledì 23 novembre 2016
Il titolo, Poesia religiosa nel Novecento, fa pensare a un'antologia, invece il libro curato da Maria Luisa Doglio e Carlo Delcorno (Il Mulino, pp. 304, euro 24) è la silloge di otto saggi dedicati ad altrettanti poeti: Giovanni Pascoli, Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Antonia Pozzi, Giorgio Caproni, Mario Pomilio, Margherita Guidacci, Cristina Campo. Nella Premessa, Maria Luisa Doglio spiega l'origine dell'iniziativa predisposta dalla torinese Fondazione Michele Pellegrino, e si diffonde in ringraziamenti. Nell'Introduzione, Carlo Delcorno ammette di non essere «specialista della letteratura del secolo scorso», e preferisce lasciarsi «condurre in un percorso che riserva non poche emozioni, seguendo la traccia di otto studiosi, a molti dei quali mi lega una ormai sperimentata consuetudine di comuni ricerche». In pratica, si limita a riassumere gli otto saggi, con compiaciuta ammirazione. I saggi, diligentissimi, rispecchiano la metodologia della ricerca accademica. Le note fanno fede delle incursioni bibliografiche degli autori, e appunto l'ampio riferire di interpretazioni e di giudizi altrui finisce per soffocare il giudizio critico proprio, qualora ci fosse. Chi ben conosce gli otto poeti rassegnati (passati in rassegna, ma anche resi mesti per le troppe parole che dilavano i loro versi), non trova in queste pagine illuminazioni decisive, soprattutto se si conoscono in originale i testi citati in nota. Chi non li conosce, probabilmente non si sentirà incoraggiato dagli otto commenti che spengono i testi poetici e sembrano rivolti soprattutto a ipotetiche commissioni d'esame in vista di eventuali carriere accademiche. È come voler spiegare le barzellette: la poesia, o la si capisce subito, o è meglio lasciar perdere. Ragionare di sintagmi, allitterazioni, «effetti di circolarità», vanifica gli sforzi e i risultati che il comico (il poeta) aveva concentrato in una battuta (Ezra Pound aborriva i commenti alle poesie, nel suo caso, peraltro, occasionalmente indispensabili). Per esempio. Ascoltiamo la luminosa semplicità di Cristina Campo: «Più inerme del giglio/ nel luminoso/ sudario/ sale il Calvario/ teologale/ penetra nel roveto/ crepitante dei millenni/ si occulta/ nell'odorosa nube della lingua». Clara Leri commenta: «Il processo iconico di "verticalizzazione" ritmico-sintattica isola le coordinate asindetiche in uno sforzo di concentrazione semantica, mostrato dalle parole-verso che Cristina attinge dalla scissione dei sintagmi costituiti, sul crinale dell'enjambement, da sostantivi e attributi». La coltissima esegeta ha girato l'interruttore, ha spento la luce. E come non accorgersi che «Creature, colonne di fuoco,/ immagini del Dio vivente,/ perdonate la mia presenza/ a turbare l'incanto...» di David Maria Turoldo è retorica esibizionista, e non «rispetto ammirato per l'epifania dell'essere», come sostiene Guido Laurenti? Molto opportuna la valorizzazione che Silvia Serventi compie della cara Margherita Guidacci, la quale, peraltro, non meritava di essere collegata alla Risurrezione di Grünewald attraverso una citazione di Hans Küng. Giustamente breve il saggio di Claudio Gigante sulla poesia di Mario Pomilio, autore dell'unica raccolta Emblemi. Poesie 1949-1953, pubblicata nel 2000, nel decennale della morte, a cura del figlio Tommaso. L'amico Pomilio, consapevolmente reticente in vita sulla sua poesia, rimane quasi esclusivamente un grande narratore. La rappresentatività degli otto poeti nel quadro della poesia religiosa del Novecento rimane – com'è ovvio – unicamente responsabilità dei curatori. Manuali, storie della letteratura, inflitti agli studenti universitari per tarpargli la curiosità di leggere "innocentemente" gli originali.