E adesso le neuroscienze pretendono di dire qual è la sostanza della poesia
Mi fermo brevemente sugli editoriali di Valesio e Polcri e sull'ampio saggio di Giorgio Manacorda (qui in inglese: What is poetry?). Valesio introduce al problema del fraintendimento linguistico e al modo in cui la poesia lo usa: «Sembra che il linguaggio umano si sia evoluto (o involuto) in larga parte come mezzo per fraintendersi. Ora, la poesia aderisce entusiasticamente a questo fenomeno - lo sposa, lo intensifica», la sua è «un'accettazione ludico-rassegnata» dei limiti comunicativi della lingua. Polcri polemizza con le troppe letture pubbliche di poesia organizzate per fare intrattenimento: il rischio peggiore è che la poesia invece di identificarsi con un testo stampato su cui riflettere si identifichi con l'immagine fisica del poeta.
Infine Giorgio Manacorda osa porre di nuovo il problema di una definizione generale della poesia. È quasi incredibile, ma leggendo il suo saggio si arriva a credere che la sua definizione sia oggi la più soddisfacente e scientifica. Manacorda parte dai classici (da Platone a Croce) ma il suo asso nella manica sono le attuali neuroscienze. Contro l'idea novecentesca di una libertà creativa illimitata, Manacorda reintroduce per via biologica l'idea classica che non c'è creatività senza percezione dei suoi limiti. La poesia non è altro che «la forma della mente» rivelata nel linguaggio. Questo mi lascia perplesso: perché solo la poesia? E gli altri generi letterari?