Due inni hanno fatto più rumore di altri in questi primi giorni di Giochi Olimpici. A farli suonare ci hanno pensato un uomo e una donna, entrambi primi ori olimpici nella storia dei rispettivi Paesi. Si tratta di Hoang Xuan Vinh, per il Vietnam, nella gara di pistola 10 metri ad aria compressa e Majilinda Kelmendi, judoka, che è stata anche, nella sfilata inaugurale, la portabandiera del Kosovo. Ci sono grandi significati, incastrati l'uno dentro l'altro in una sorta di matrioska emotiva, dietro a queste due imprese che hanno avuto risonanza planetaria.Hoang Xuan Vinh è nato, poverissimo, sei mesi prima della caduta di Saigon, fine della lunghissima guerra vietnamita. Orfano di madre a tre anni, inizia la sua rincorsa nei confronti della vita prima laureandosi, poi entrando nell'Esercito, dove può allenarsi in quello che scopre essere il suo talento: il tiro con la pistola. Un crescendo agonistico che lo porta fino a Londra 2012, dove perde una medaglia di bronzo per 0,1 decimi di punto. Incomincia proprio lì il suo sprint verso Rio, dove vince la medaglia d'oro in uno sport dove concentrazione, nervi d'acciaio e capacità di controllo delle emozioni sono abilità necessarie. L'ha fatto nella prima occasione in cui il regolamento ha reso possibile fare il tifo dagli spalti. L'ha fatto in Brasile, in finale contro un brasiliano che gli è stato sempre dietro, vedendosi superato al penultimo tiro e dopo un ultimo tiro del suo avversario da 10.1, fra ululati da stadio del pubblico (in modo non troppo olimpico, contro di lui). Hoang Xuan Vinh, ha fatto sfogare tutti, tirando un lunghissimo e teatrale sospiro, prima del suo ultimo tiro. Ha aspettato una dozzina di secondi che, a tutti, sono sembrati ore.Quel tempo sospeso ha ricordato ciò che fece Obdulio Varela, capitano dell'Uruguay, il 16 luglio del 1950, al Maracanã il giorno in cui la sua squadra si laureò Campione del Mondo di calcio, proprio contro il Brasile, di fronte a duecentomila tifosi brasiliani. Al gol di Friaça, per il Brasile, il Maracanã esplode e per l'Uruguay pare tutto finito. Obdulio, con una freddezza tutt'altro che Sudamericana, raccoglie la palla dentro la sua porta, se la mette sotto il braccio e impiega quasi tre minuti a tornare verso il dischetto del centrocampo. Duecentomila persone perdono la testa e lo insultano pesantemente, ma lui ha ottenuto il suo obiettivo: ha capovolto il clima. Vincerà l'Uruguay, due a uno, fra infarti e suicidi sugli spalti, in quella che passerà alla storia come il Maracanazo, una delle peggiori catastrofi sportive della storia brasiliana. Hoang Xuan Vinh sente quelle urla, ma come Varela decide lui quanto tempo metterci a mirare, premere il grilletto e centrare un 10.7 con cui cambia la storia, diventando eroe nazionale del suo Paese. Majilinda Kelmendi, judoka fortissima, a Londra era stata costretta a rappresentare l'Albania, in quanto il suo Kosovo non era ancora stato riconosciuto dal Cio. Tutto da dimenticare, risultato compreso: eliminata al secondo turno. Inizia lì anche la sua rincorsa, nobilitata dal riconoscimento del Kosovo come nazione che può partecipare con la propria bandiera ai Giochi Olimpici. Majilinda quella bandiera la porterà con orgoglio prima sul terreno del Maracanã, in mezzo alle bandiere di tutto il mondo, poi la farà issare sul pennone più alto proprio nel giorno in cui il governo serbo vergognosamente indica ai suoi atleti di scendere dal podio, nel caso di presenza sullo stesso di atleti kosovari. Caso teorico, almeno per ora, visto che la Serbia di medaglie ancora non ne ha vinta nessuna e, anzi quello stesso giorno, l'atleta simbolo della Serbia, Nole Djokovic, viene eliminato al primo turno dal tennista argentino Del Potro. Nulla succede per caso. Storie di rincorse e riscatti: della propria vicenda umana e della storia di Paesi noti al mondo solo per la maledizione della guerra. Storie di rincorse e riscatti che, legati all'epica dell'impresa, contribuiscono a scrivere una nuova geopolitica dello sport.