È cupa, decisamente cupa la serie tv Dostoevskij, la prima ideata, scritta e diretta dai Fratelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio, gemelli, nati a Roma nel 1988, registi e sceneggiatori, con all’attivo tre film in proprio: La terra dell’abbastanza, Favolacce e America Latina. La serie (su Sky e in streaming su Now con tutti gli episodi disponibili, prodotta da Sky Studios con Paco Cinematografica) è un thriller psicologico dai risvolti noir, molto noir, con protagonista Filippo Timi nei trasandati panni di Enzo Vitello, un tormentato e folle poliziotto dal passato oscuro, inquietante, alle prese ora con un serial killer che ogni volta lascia una lettera sul luogo del delitto, scritta a mano e in stampatello, in cui descrive gli ultimi istanti di vita delle vittime aggiungendo nichilistiche considerazioni sul senso dell’esistenza con stile letterario al punto di essere ribattezzato Dostoevskij dagli stessi poliziotti che gli danno la caccia. Si tratta di una storia che definire torbida è poco, narrata con un linguaggio crudo, a tratti volgare, con inquadrature, molte delle quali in primissimo piano, che lasciano poco spazio all’immaginazione. Non ci vengono risparmiati i particolari dei morti ammazzati, delle violenze, dei corpi straziati e nemmeno la visione di una colonscopìa del protagonista. Vitello è un uomo profondamente solo, dai modi rudi e dalle tendenze suicide, dilaniato da dolori intestinali psicosomatici che rivelano un malessere profondo che tiene a bada con medicinali legali e non, che deve fare i conti con il senso di colpa per aver abbandonato, quando era solo una bambina, la figlia Ambra (Carlotta Gamba), oggi ventenne prostituta e tossicodipendente. L’indagine sul caso Dostoevskij, che chiaramente lo ossessiona, lo costringe ad affrontare l’oscurità che si porta dentro da sempre, confessando alla figlia il segreto che lo ha spinto ad abbandonarla e ad abbandonare se stesso. Gli autori sostengono di aver narrato «le estreme conseguenze dell’essere vivi», di «un uomo che ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto». Ed è così, visto il senso di vuoto interiore e valoriale che la serie trasmette attraverso una vicenda tenebrosa dal finale imprevedibile, ma anche attraverso i modi del racconto con il punto di vista mai scontato della macchina da presa spesso condotta a mano, con i colori freddi della fotografia, il ritmo lento, le ambientazioni tutt’altro che da cartolina, i non-luoghi, la scarsa luce usata come tentativo senza speranza di uscire dall’oscurità. Ogni inquadratura sembra voler soppesare la fragilità dell’esistenza. Il più delle volte si è ricacciati nel buio, materiale ed esistenziale. In definitiva Dostoevskij (al di là di un titolo che potrebbe far pensare a tutt’altro) è una serie fuori dagli schemi, difficile da affrontare e ancora più da proporre: è un pugno allo stomaco.
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