Recentemente papa Francesco tra i film più amati ha ricordato “Roma città aperta”, richiamando così anche la figura del prete interpretato da Aldo Fabrizi. Da sempre sulla identificazione di questo “confratello d'Italia” si discute tra vari preti che hanno vissuto l'esperienza della resistenza di Roma occupata dai nazisti. C'è chi dice che si trattava di don Pietro Pellegrini, altri parla di don Pietro Pappagallo, ma per molti l'identificazione vera è con la figura di don Giuseppe Morosini, originario di Ferentino e prete della Congregazione della Missione, ordinato a San Giovanni in Laterano nel 1937. Anni movimentati: nel 1941 don Giuseppe fu cappellano militare nel quarto reggimento d'artiglieria a Laurana, in Croazia, poi trasferito a Roma nel 1943 e dopo l'8 settembre prese parte alla resistenza antinazista in particolare con la cosiddetta Banda Bosconi, che operava nella zona di Prati delle Vittorie, come prete al servizio di coloro con cui collaborava, ma anche procurando vettovaglie e in qualche occasione armi. In particolare pare che egli riuscì ad ottenere dai tedeschi indiscrezioni sui piani operativi per superare l'ostacolo gigante di Montecassino, e anche informazioni sui progetti difensivi dei tedeschi nei pressi del monte Soratte dove era in progetto il trasporto di opere d'arte di grande valore storico in vista del trasferimento in Germania. Don Giuseppe li comunicò alle forze alleate, ma qualcuno - si dice fosse un certo Dante Bruna - lo denunciò, compensato con 70000 lire, e don Giuseppe fu arrestato il 4 gennaio del 1944 a via Pompeo Magno, in prossimità della chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna, dove erano nascosti molti ebrei e militanti della Resistenza romana. Torturato più volte tra i locali di via Tasso e il carcere di Regina Coeli, mantenne sempre la sua dignità e collaborò con le vittime tacendo ogni informazione. Il 3 aprile del 1944, dopo numerosi tentativi di fargli rivelare i segreti della resistenza armata e civile, fu condannato a morte e trasportato a forte Bravetta per la fucilazione alla schiena, ultimo oltraggio alla resistenza e all'onore. Nonostante l'intervento ripetuto della Santa Sede l'esecuzione fu inesorabile, ed è accertato che don Morosini fu accompagnato fino all'ultimo passo dal vicegerente di Roma, monsignor Luigi Traglia, che da vescovo lo aveva ordinato prete sette anni prima. Raccontano i testimoni che all'ordine di fuoco 10 tra i 12 incaricati della fucilazione spararono in aria e don Morosini, ferito, fu ucciso con due colpi alla nuca dall'ufficiale fascista che comandava l'esecuzione. E tra coloro che accostarono don Morosini in carcere ci fu pure Sandro Pertini, che nel 1969 lasciò su di lui questa testimonianza: «detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà ed egli si sforzò di sorridermi. Le labbra gli sanguinavano. Nei suoi occhi brillava una luce viva, la luce della sua fede benedisse il plotone di esecuzione dicendo ad alta voce: “Dio perdona loro: non sanno quello che fanno”, come Cristo sul Golgota. Il ricordo di questo nobilissimo martire vive e vivrà nel sempre nell'anima mia». Altra circostanza significativa: con lui in carcere, stessa cella, ci fu a lungo Epimenio Liberi, giovane commerciante che aveva combattuto a Porta San Paolo e militava nel Partito d'Azione impegnato nella resistenza. Nacque un'amicizia tra lui e don Pietro, che quando seppe che il suo amico era in attesa del terzo figlio volle scrivere, da esperto musicista quale era, una bellissima “Ninna nanna” per soprano al pianoforte. Va aggiunto, con rinnovata tristezza che il giovane Epimenio fu poi ucciso alle Fosse Ardeatine. Per concludere torniamo a noi: don Pietro Morosini, bel confratello d'Italia!