Don Giuseppe Canovai nasce a Roma il 27 dicembre 1904, padre impiegato, madre Egeria Pezzoli figlia di uno “sediario” pontificio. Studi in casa, poi al liceo Visconti e quattro lauree: filosofia, diritto civile, teologia e diritto canonico. A 20 anni perde il padre: cerca lavoro, ma si sente chiamato al sacerdozio. Si pensa gesuita, ma per il momento si occupa della mamma malata, affidandola ad una domestica di nome Rosa, per tutti “zia Rosa” che lo accompagnerà per molti anni, e che ho incontrato. Entra al Collegio Capranica e il 3 maggio 1931 è ordinato prete. Lavora in Vaticano nella Congregazione dei Seminari e nel 1936 incontra la dottoressa Tommasa Alfieri che tutti chiamano “la signorina”, poi fondatrice della “Familia Christi”, movimento cui don Giuseppe si dedicherà. Nel 1937 è assistente diocesano della Fuci, e ottiene dal Comune la costruzione di una cappella universitaria. Parrebbe l’inizio di un futuro prolungato, ma inaspettata, maggio 1939, arriva la proposta di uditore di nunziatura a Buenos Aires, un cambiamento totale di vita accolto solo per obbedienza, in prospettiva del bene della Chiesa universale. Lì il suo entusiasmo conquista il nunzio apostolico Fietta, che gli chiede conferenze, esercizi spirituali e lezioni dei corsi presso l’Università Cattolica di Buenos Aires con stima ed elogi da tutti. Uno dei preti argentini più importanti al tempo, Manuel Moledo, disse che lui «sapeva gettare ponti sopra gli abissi». Intanto, però, don Giuseppe sopportava sofferenze fisiche per la salute cagionevole, cui aggiungeva volontariamente offerte di sangue al “Signore Gesù”, anche con penitenze dolorosissime con il permesso eccezionale del suo confessore, il gesuita padre Andrea Doglia. L’apprezzamento da parte della Santa Sede comportò il trasferimento come incaricato di affari a Santiago del Cile. Anche lì grande apostolato e conquista della stima di tutti. Nel suo diario personale scrive rivolgendosi a Gesù crocifisso: «Non ti chiedo che la terra ove mi inviò la Tua Provvidenza mi germini rose, ma solo che mi doni le spine della Tua Passione…».
Le sue penitenze personali raggiungono, e forse superano il limite persino dell’inconcepibile. Tra questi eccessi la scrittura del Diario o di preghiere con il suo sangue al posto dell’inchiostro, o l’applicazione sul petto di un Crocifisso di metallo arroventato per l’occasione.
Dunque: di giorno brillantissimo diplomatico, di notte un penitente apparentemente esasperato e quasi masochista? Difficile sottrarsi al dubbio… Nel luglio del 1942 don Giuseppe torna a Buenos Aires e riprende tutte le sue iniziative addirittura in crescendo, come se presentisse che il suo tempo ormai era limitato. A novembre una peritonite, offerta nella identificazione volontaria con Cristo Crocifisso lo porta alla morte, che egli “vive” cantando l’inno del “Vexilla Regis”, per il trionfo della vita su ogni morte. Fu sepolto nel cimitero di Buenos Aires, poi nel 1949 riportato a Roma, per ora in una tomba dei francescani. Il vero “sangue” della salvezza lo ha già versato un Altro. Da lassù don Giuseppe Canovai sorriderà lo stesso: del resto lui sa – adesso – che un vero “argentino” è al timone della Chiesa di Gesù: Crocifisso certo, ma Risorto.
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