«Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quella del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. (...) Noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità, col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto alle avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo». Leopardi è poeta compassionevole virile: Dante è condannato all'esilio, pena la morte se rimettesse piede a Firenze. Condannato, esule, poverissimo. Tasso, grande poeta, è tormentato da intrighi di corte, turbato da deliri, a volte incarcerato, anche se finirà bene la sua vita. Ma Dante, scrive Leopardi che aggiunge «considero, come tutti, più grande di Tasso», non lo commuove, alla vista del suo sepolcro. Ammirazione, non pena. Dante ha resistito da solo. Tasso, turbato, schiantato da avversità pur se famoso, Tasso sì commuove. Per la sua miseria.