Non si fa che parlare di “crescita”, intendendo con questa parola la crescita economica, che da tempo in Occidente è al di sotto dei due punti percentuali. La preoccupazione è grande, enorme, ossessiva. Sulla crescita si litiga, sulla crescita si confrontano, si combattono, si insultano gli schieramenti politici. Ma oltre che una realtà, la crescita è anche un mito, un fantasma, una divinità che ci domina, impregna la cultura e la vita sociale, ne contamina le radici. Il vecchio Marx aveva capito bene: l'economia, i soldi, nel mondo creato dal capitalismo moderno, sono la base di tutto. Prima non era così. Crediamo e ripetiamo che la modernità occidentale ha creato valori irrinunciabili come quelli di libertà e di uguaglianza. Il terzo valore della triade, però, è in declino e tende a scomparire: la fraternità. C'è in giro, per caso, qualche economista che identificando crescita e progresso, sviluppo economico e progresso sociale, morale, culturale, umano, si ricordi di un valore come la fraternità, oggi perfino terminologicamente desueto? C'è poi la “ricerca della felicità”, che gli autori della Costituzione americana hanno avuto il coraggio o il candore o l'onestà di considerare per legge un diritto di ognuno e di tutti. Certo, se poi ci si mette in testa che felicità significa più produzione per più merci da consumare, tutto quadra. Ma il consumatore soddisfatto è un essere umano felice? La felicità è difficile da definire, forse è meglio non definirla e qualche poeta l'ha lodata proprio perché non si possiede, non si può possedere. Noi non la dominiamo: avviene e poi ci sfugge. Non ubbidisce ai nostri ordini e desideri. Qualcuno, anzi molti, pensavano che la modernità progressiva era ottima perché eliminava i dogmi religiosi. Qualcun altro (più raro: per esempio Walter Benjamin) disse che il capitalismo era a sua volta una religione con i suoi dogmi e che richiedeva una fede senza neppure farlo capire. Altro che razionalità, dialogo, discussione sui mezzi e suoi fini... La crescita economica non si discute! Queste considerazioni mi sono suggerite da un originale articolo di fondo dell'economista Lucrezia Reichlin uscito domenica scorsa sul Corriere della Sera, intitolato “Crescita senza felicità”. È una bella proposta di ragionamento perché se l'imperativo della crescita non rende più felice la società, allora è il caso di riflettere. Cito: «Non c'è da disperarsi. L'Italia e i Paesi europei sono ancora relativamente ricchi rispetto al resto del mondo e crescere piano non significa morire di fame. [...] Non è neanche vero che la crescita in sé porti la felicità. La rivoluzione industriale ha prodotto una società gerarchica che ha voltato le spalle agli ideali dell'illuminismo», cioè all'uguaglianza e alla fraternità. Il primo vero progresso è eliminare la fame, distribuire la ricchezza che c'è. Saremmo tutti più felici.